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Il pensiero del giorno: Gv 10,11-18

22 Aprile 2018 - Autore: Don Piero Cantoni

« Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio » (Gv 10,11-18). 

Gesù conduce il gregge lontano dai pericoli verso pascoli nutrienti e sicuri. È così dedito al suo compito che è pronto a dare la vita per le sue pecore. Sebbene Dio fosse il pastore di Israele (Sal 23,1; Is 40,11), esercitava la sua funzione mediante pastori terreni come Giosuè e Davide (Nm 27,16-18; 2Sam 5,2). Un qualcosa di simile era atteso per gli ultimi giorni, quando Dio avrebbe condotto il suo popolo per mezzo del Messia di discendenza davidica (Ez 34,11-24). Lo stesso Davide era in fondo un buon pastore, che metteva a repentaglio la sua vita per difendere il suo popolo dai predatori (1Sam 17,34-36). Ma Dio rispetta le promesse al di là di quanto lui stesso ha promesso… Nonostante i meriti negativi accumulati dal suo popolo e da tutti i popoli nel frattempo (« ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia » Rm 5,20). L’amore di Dio infatti non è misurato dai meriti, ma dalla necessità; il povero peccatore, se accoglie liberamente la grazia del perdono assolutamente immeritato che lo precede, diventa allora capace di meritare al di là dei suoi meriti e dei suoi stessi desideri. « Io sono il buon pastore »: “Io sono” diventa Lui stesso il vero Pastore. Il Cuore di Dio incomincia ad amare con un cuore umano. Il concilio ecumenico Vaticano II ha voluto essere un concilio “pastorale”.

Che cosa significa questo? Il buon pastore conosce le sue pecore, cioè le ama; conoscere e amare in Giovanni sono praticamente sinonimi. Le pecore così riconoscono la sua voce. Al mercenario invece non importa delle pecore: non le ama. Evangelizzare non vuol dire solo “dire”, ma mettercela tutta per farsi capire, per far entrare la Parola di Dio nel cuore di chi ascolta, perché così fa chi ama veramente. Non basta pensare: io glielo ho detto, ora si arrangi! Dio si è rivelato con fatti e parole. Gesù ci ha insegnato tante cose, ma il suo insegnamento più importante è un fatto: è morto per noi, ha dato la sua vita per noi. Tutto quello che ci ha insegnato si concentra e si “riassume” in quel fatto. Perché ci ha insegnato con tante bellissime parole? Con discorsi e parabole? Perché potessimo capire e accogliere quel fatto. La Chiesa ha ereditato questo metodo. Nella Messa infatti viene distribuito il cibo della parola per prepararci alla mensa del corpo e del sangue di Gesù. Perché a contatto con quel corpo “dato”, “sacrificato”, per noi, anche noi ci lasciamo coinvolgere in questa corrente viva dell’Amore di Dio. Questa è la vera “pastorale” che la Chiesa ci ha insegnato e ci insegna. In fondo è semplice: per annunciare efficacemente il Vangelo è indispensabile lasciarci coinvolgere nella Vita che annuncia. Semplice… per i semplici.

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