« E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio » (Gv 3,14-21).
Gesù si riferisce ad un episodio narrato nel libro dei Numeri: Nm 21,4-9. In esso è narrato l’ennesimo peccato di incredulità del popolo nei confronti di Dio e del suo inviato Mosè che è punito con serpenti velenosi che mordono e uccidono. Il rimedio che Dio, impietosito, comunica a Mosè, è quello di fare un serpente di bronzo posto sopra un’asta: chiunque guarderà al serpente verrà guarito. L’allusione alla passione di Gesù è evidente: lui è il vero serpente che verrà innalzato sulla croce e chiunque guarderà a Lui con fede verrà guarito.
Più avanti lo stesso Giovanni userà proprio questa espressione, riportando un passo del profeta Zaccaria: « E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto » (Gv 19,37). È utile rileggere qui la profezia di Zaccaria, perché è molto significativa: « Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito » (Zc 12,10).
Quello che nella traduzione greca dei Settanta, citata da Giovanni diventa « colui che hanno trafitto », nel testo ebraico è « a me, che hanno trafitto – אֵלַי אֵת אֲשֶׁר-דָּקָרוּ». Qui viene svelato un mistero inaudito: il Figlio stesso di Dio si identifica con il peccato degli uomini (rappresentato dal serpente) in modo tale che chi guarda a Lui, chi ha fede viva in lui, cioè chi lo guarda con amore, viene da Lui guarito e salvato. Qui viene svelato fino a che punto è arrivato l’amore misericordioso infinito di Dio: « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio » (2Cor 5,21; cfr. Gal 3,13; 1Pt 2,24). Gesù (evidentemente!) non ha commesso peccato (cfr. 1Gv 3,5; Eb 4,15) ma ha preso su di sé tutte le orribili conseguenze del peccato, si potrebbe dire “l’essenza del peccato” in quanto separazione da Dio, vincendolo e distruggendolo con la forza del suo amore innocente.
Questo è il motivo profondo del suo dolore, ultimamente incomprensibile e irraggiungibile (cfr. Mt 26,38; 27,46; Gv 7,34.36; 8,21-22; 13,33). Ecco perché il cristiano si sforza di non distogliere mai gli occhi da Gesù crocifisso e ama avere sempre la Croce “a portata di sguardo”.