« Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Disse loro: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi,rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi” » (Lc 13,22-30).
Sono molti o pochi quelli che si salvano? Sono la maggioranza o la minoranza? Possiamo pensare che poi, in fondo, si salveranno tutti? Il Signore qui non risponde a questo genere di domande. Perché fa così? Perché ritiene che domande di questo genere siano pericolose: esse infatti distraggono dal problema vero. Qual’è il problema vero? Sono “io” quello che si deve salvare: «Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso? » (Lc 9,25).
Le statistiche diventano un mezzo raffinato per pensare ad altro. In seminario ci si scherzava un po’ sopra: « Sai, sono convinto che sono pochi, pochissimi, quelli che si salvano: io, te… E ho dei dubbi su di te! ». « Sai, forse l’inferno è vuoto… Forse… E come lo sai, ci sei stato? ». La faccenda della salvezza è una questione troppo seria per tollerare delle distrazioni. Gesù ci scuote e ci invita a pensarci seriamente e personalmente: « Sforzatevi di entrare per la porta stretta »… Una porta stretta: per entrarci bisogna piegare il capo… Così stretta che se abbiamo dei pacchi li dobbiamo appoggiare per terra e lasciare fuori…
Oggi dovremmo aggiungere che oltre quella porta non c’è collegamento internet e quindi la Carta di Credito non serve a nulla. Alla soglia di quella porta si è nudi, spogli di ogni cosa, con la nostra vita illuminata dalla Verità, che mette impietosamente a nudo ogni anche più piccola mancanza, ogni malvagia intenzione nascosta. Non servirà a nulla l’esser nati in un posto piuttosto che in un altro, la nostra parentela, i nostri comportamenti puramente esteriori…
Mi ricordo di un tizio che, alla mia domanda se pregava e andava a Messa, mi rispose candidamente: “non ho proprio tempo per queste cose… sappia però che ho uno zio vescovo!”. Noi viviamo in contrade che hanno un evidente passato cristiano. Ovunque si innalzano campanili e croci, e i segni di una presenza cristiana fiorente e artisticamente molto bella si sprecano… Ma tutto questo davanti al problema della “mia” salvezza non conta nulla… Se non l’ho mai preso veramente sul serio, possono valere solo come circostanze aggravanti… Allora?
Allora ci conviene far subito una cosa decisiva: inginocchiarci davanti al Signore Gesù e chiedergli umilmente perdono. Cercare un confessionale e sottoporci con fiducia al tribunale di quella misericordia che è costata il sangue di Gesù. Una gioia incredibile non tarderà ad investirci. Non è un mio pensierino personale, è detto in un passaggio un po’ dimenticato nei documenti (pastorali…) del Concilio ecumenico di Trento: il sacramento della penitenza ci dona « la pace e la serenità della coscienza insieme ad una vivissima consolazione dello spirito » (DS 1674).
Il perdono è qualcosa di personale. Riguarda me, con la mia vita e la mia storia. Non si lascia ridurre a statistica… non sono “uno dei tanti”. Il perdono lo devo cercare con il cuore ed accogliere nel cuore, perché mi è offerto da un Cuore. Un Cuore che parla ad un cuore… non ad un numero.