« Ed ecco, un tale si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?”. Gli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Gli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso “. Il giovane gli disse: “Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!”. Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze » (Mt 19,16-22).
Una parola di Gesù ci deve far riflettere particolarmente: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo». Se la prendiamo “alla lettera” non possiamo più chiamare “buona” neppure la pastasciutta che abbiamo nel piatto… Che cosa vuol dire “alla lettera”? Senza intelligenza, senza comprensione, se vogliamo usare una parola difficile “senza ermeneutica”. Se facciamo così ci meritiamo anche noi il rimprovero del Maestro: « Anche voi siete ancora senza intelligenza [ἀσύνετοί]? » (Mt 15,16). Non sarebbe neppure possibile chiamare qualcuno ‘padre’ o ‘maestro’, posto che Gesù, rimproverando gli scribi ed i farisei, ha detto: «Non chiamate nessuno padre sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro quello del cielo. E non fatevi chiamare maestro, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo» (Mt 23,9-10). Ricorrere ad un padre spirituale terreno non costituisce un tradimento delle sue parole? Il riferimento ad una persona che funga da mediatore nei rapporti con Dio non costituisce un diversivo e non finisce per frapporre come uno schermo a quella intimità di rapporti che proprio l’incarnazione del Verbo è venuta ad instaurare? In realtà le parole del Signore, così come sono state comprese dagli apostoli non implicano un rifiuto dell’appellazione di «padre» o «madre» nell’ordine spirituale, ma vogliono solo sottolineare un punto cardine: che ogni paternità (e maternità) sono partecipazione della paternità (e maternità) di Dio. Dice San Paolo: «Per questo, io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (Ef 3,14-15). Per l’apostolo delle genti la Chiesa è «nostra madre» (Gal 4,26) e quando scrive ai suoi «figlioli»: «Io di nuovo vi partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (Gal 4,19), egli sa che questa sua maternità reale è partecipazione all’unica Maternità divina. D’altronde lo stesso Gesù rivendica per sé una certa paternità, quando chiama teknía – figliuoli – quelli che il Padre gli ha dato. Dobbiamo ovviamente intendere questo passo nel senso di una partecipazione nell’umanità del Redentore della paternità divina che Lui è venuto a rivelare e a comunicare, se non vogliamo ritrovarci con una cristologia monofisita, in cui cioè la natura divina assorbe e annulla la natura umana… Alla luce di queste considerazioni si capiscono allora le parole che il Concilio ecumenico Vaticano II riserva alla mediazione di Maria: «non impedisce minimamente l’unione immediata dei credenti con Cristo, anzi la favorisce [fovet]» (LG 60). Un giorno Gesù apparve a santa Caterina da Siena e le disse: “io sono colui che è, tu sei colei che non è”. Dio solo propriamente “è”, in paragone a lui noi non siamo… Queste parole ci aiutano a capire che quando parliamo di Dio “balbettiamo”, cioè usiamo il nostro linguaggio in un modo particolare, che si è convenuto di chiamare “analogico”. Tutti i termini della teologia sono “analogici”. Si dicono di Dio in senso pieno e delle altre realtà in senso derivato e partecipato. Anche il termine “infallibilità” è di questo tipo. Infallibile in senso pieno e originario è solo Dio, come Dio solo è “buono”. Ma in senso derivato è infallibile la Chiesa, il collegio dei vescovi con in testa il papa, il papa da solo, il popolo dei fedeli nel credere. L’infallibilità si dice in molti modi (come il termine “buono”): ordinaria o straordinaria, nell’insegnare o nel credere. Non esiste solo la definizione straordinaria “infallibile”, in modo tale che il resto non lo è in nessun modo. Nella mente e nelle espressioni di molti teologi [?] tutto ciò che non è definito è discutibile, anzi non essendo certamente vero… è certamente falso! Un esempio palese di “mancanza di intelligenza”. Non imitiamoli!