Di Andrea Morigi da Libero del 03/10/2024
Debole, malato, timido, con un filo di voce, don Jerzy Popieluszko sembrava poco adatto ad assistere spiritualmente i rudimetalmeccanici dello stabilimento siderurgico di Nowa Huta in lotta contro il regime comunista polacco. Non si capisce nemmeno perché mai quarant’anni fa, nel pieno della legge marziale, i servizi segreti agli ordini del generale Wojciech Jaruzelski abbiano deciso di far rapire, torturare e uccidere proprio quel prete il 16 ottobre 1984 e farlo gettare morente nella Vistola. Intendevano provocare il Pontefice, dimostrare ai loro padroni sovietici che a Varsavia sapevano come gestire autonomamente il dissenso religioso, terrorizzare Solidarnosc? Tutte ipotesi legittime sotto l’aspetto politico, finché non si coglie uno spunto fornito da Wlodzimierz Redzioch e Grzegorz Gorny, nella traduzione del loro Jerzy Popieluszko, martire del comunismo, in libreria dal 3 ottobre per i tipi delle edizioni Ares (pp. 272, euro 16,80): celebrando le “messe per la patria” che, nelle sue parole, aiutavano a «liberarsi dall’odio», quel rappresentante del “clero reazionario” – come lo definivano al Dipartimento IV del ministero dell’Interno polacco, il cui compito era combattere la Chiesa – stava erodendo il residuo consenso rimasto al regime. E soprattutto, insegnando a non aver paura del comunismo, aveva messo paura addosso al comunismo stesso.
Fragili e Incrollabili
Hanno eretto una croce enorme, di vetro e acciaio, opera dello scultore Jerzy Kalina, nel luogo dove il cadavere fu ritrovato. Simbolo della possibilità di essere fragili e allo stesso tempo incrollabili. «Quando sono debole è allora che sono forte» scrive san Paolo ai Corinzi. Attualmente, le testimonianze di guarigioni, mediche, spirituali, psicologiche e professionali ottenute rivolgendosi a don Jerzy sono numerose. La Chiesa lo ha proclamato beato il 6 giugno del 2010. Perché lo canonizzino ci vuole almeno un altro segno. Se intercedesse dall’alto per tanti confratelli e fedeli cattolici, concedendo loro la grazia di non rimanere subalterni alla cultura marxista, quello sì sarebbe un miracolo. Ma bisogna pregare intensamente perché il Signore lo conceda. C’è una montagna di arretrato da sbrigare «e gli operai sono pochi» (Lc, 10,2). I santi servono anche a dare l’esempio. Tredici testimonianze dirette, sotto forma di intervista, ci ricordano il coraggio di un sacerdote perseguitato che non si lasciò intimorire coltivando la speranza, soprannaturale e terrena. Gli tenevano il fiato sul collo fin dalle elementari, minacciavano sua mamma che avrebbero punito l’alunno con un cattivo voto di condotta se non gli avesse impedito di andare a servire messa tutte le mattine. I fratelli Teresa e Jozef osservano che il paradossale risultato dell’attività delle strutture repressive fu che il ragazzo decise di diventare prete. Ai seminaristi venivano imposti due anni di servizio di leva punitivo. Alek, come lo chiamavano in famiglia, non riuscirono a piegarlo. Anzi, in una lettera al direttore spirituale del seminario, Czeslaw Mietek, la recluta descrive una prima tappa del suo Calvario: «Il comandante del plotone mi ordinò di levare il rosario dal dito alle consegne dinanzi all’intero plotone. Risposi che non eseguivo l’ordine. Allora a motivo di questo lanciò la minaccia di condurmi dal procuratore. Poi, per condiscendenza, la ritirò. Il fatto in sé non significa nulla. Ma io guardo sempre profondamente». Finché trova il significato di quanto sta avvenendo nelle parole stesse del suo Ponzio Pilato, il quale «mi scherniva dicendo: “Ecco, l’eroe della fede”. Ma tutto questo è niente». In realtà è già un perfetto candidato all’effusione del sangue, anche se il sacrificio estremo avverrà qualche anno più tardi.
È il momento della testimonianza. Martire significa testimone, del resto. Lo fanno spogliare davanti al plotone. Rimane scalzo per un’ora. Intanto i commilitoni pregano per lui, rischiando sanzioni disciplinari e facendo infuriare le gerarchie militari. «Alle 22 tornò un ufficiale politico, mi ordinò di togliere il rosario davanti a lui. Ma per quale motivo? Non lo tolsi, poiché non disturbava nessuno e non l’avrei tolto per il fatto che qualcuno non poteva vederlo».
L’imitazione di Cristo
Sarebbe stato già sufficiente agli atei militanti per capire che il loro sforzo era fallito perché tutto quello che avevano ottenuto era di rendere quel ragazzo ancora più simile a Gesù Cristo nella Passione. Se l’ideologia e l’odio non avessero prevalso sulla realtà, accecandoli, avrebbero smesso di pedinarlo, spiarlo e tentare di nascondergli roba scottante in casa per comprometterlo durante tutti gli otto anni di sacerdozio. Invece, come avrebbe detto Pietro Metastasio, «in guisa tale Dio gli eventi dispone che serve al suo voler chi più si oppone». Così, eliminandolo, lo avevano trasformato loro malgrado in un «impavido difensore della verità, della giustizia, della libertà e della dignità dell’uomo», scrive Papa Giovanni Paolo II. Tutte battaglie perdute dai comunisti nel corso della loro tragica e cruenta storia.