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“Immigrazione, negli USA l’illegalità diventa legale”

28 Aprile 2017 - Autore: Marco Respinti

Da “La bianca torre di Echtelion” del 27 aprile 2017. Foto da Tgcom24

Il copione si ripete sempre uguale a se stesso. Ogni qualvolta il presidente degli Stati Uniti mette penna a un ordine esecutivo riguardante l’immigrazione, un giudice federale mette i bastoni fra le ruote.

Dopo l’annosa questione dei due cosiddetti “Muslim Ban”, che in realtà non mirano affatto a bandire alcun musulmano ma semplicemente ad arginare (per quanto risibilmente) le minacce terroristiche poste da certi Paesi giudicati a rischio non dall’Amministrazione Trump ma dal presidente Barack Obama (il vero problema è semmai che i terroristi aggirano facilmente il blocco volando per gli Stati Uniti da Paesi terzi, più il fatto che i Paesi a rischio sono molti più di quelli colpiti), adesso c’è la questione delle cosiddette “sanctuary city”.

Anzitutto chiariamo cosa sono le “città rifugio”. Sono città che rifiutano in parte o in toto di conformarsi alla politica del governo sull’immigrazione illegale, ovvero di rimpatriare i clandestini. Si tratta di grandi città come per esempio New York e Los Angeles, per un totale di 633 contee in cui vigono “giurisdizioni rifugio”. Qualunque sia la retorica che i responsabili di questo rifiuto adottano per giustificare il proprio atteggiamento, e qualunque sia la bontà, o la malvagità, delle leggi sull’immigrazione vigenti oggi negli Stati Uniti, rebus sic stantibus le “città santuario” violano la legge. Tutelano, a spese dei propri contribuenti, persone che, secondo la legge, non hanno alcun diritto a risiedervi. Non solo. Certamente fra gli stranieri che risiedono senza permesso negli Stati Uniti e che le “città rifugio” sottraggono alla legge vi sono anche balordi e delinquenti, visto che è matematico che non tutti gl’irregolari si trovano clandestinamente negli Stati Uniti per sfuggire a situazioni di persecuzione, oppressione o indigenza. Ovvero le “città rifugio”, dopo avere violato la legge statunitense sull’immigrazione in generale, in particolare sono il terreno di coltura della criminalità organizzata. Non hanno dunque alcun motivo per esistere. Per questo il presidente Trump ha cercato di paralizzarne l’azione illegale disponendo la sospensione dei fondi federali (milioni di dollari) che in loro favore eroga lo Stato, a esclusione del denaro necessario (appunto) per far rispettare la legge.

Trump lo ha fatto mesi fa, per la precisione il 25 gennaio, mediante l’Ordine Esecutivo 13798 intitolato Enhancing Public Safety in the Interior of the United States, ma è oggi che in California il giudice federale William H. Orrick III dà invece ragione alla contea di Santa Clara, alla contea di San Francisco e alla contea omonima che da settimane contestano il provvedimento. Orrick è giudice del Distretto settentrionale della California i cui casi finiscono poi davanti alla Corte d’appello del Nono circuito, vale a dire quello che il 9 febbraio bloccò all’unanimità l’Ordine Esecutivo 13769 del 27 gennaio, il primo (dei due omonimi) intitolato Protecting The Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States che bloccò le frontiere con alcuni Paesi a rischio terrorismo.

La decisione del giudice Orrick è tra l’altro sottile: non afferma infatti direttamente l’incostituzionalità della minaccia contenuta nel decreto Trump come auspicato dalle “giurisdizioni rifugio” che hanno portato il caso in tribunale (perché francamente insostenibile), ma ha decretato che il danno immediato loro derivante dall’applicazione di tale misura è stato da esse pienamente dimostrato e che dunque, a suo avviso, questo sì rischierebbe il giudizio d’incostituzionalità di fronte al tribunale supremo degli Stati Uniti. Ha utilizzato cioè male un principio sano: il principio di sussidiarietà, che impone allo Stato sia di stare alla larga se la società sa fare da sé sia di non nuocere, con il proprio potere impari, alla società stessa.

Alla fine della fiera, cioè, dopo settimane di rimuginazioni, il giudice Orrick è riuscito a trovare una falla nel sistema e ci si è buttato a capofitto, fermando il provvedimento Trump su tutto il territorio nazionale. Ovvero il giudice federale Orrick, come altri giudici federali prima di lui, ha avuto il potere, detto fatto, di bloccare per l’ennesima volta il governo del Paese più importante del mondo.

Un fatto questo che ha due risvolti decisivi. Il primo è che, nonostante i mille tentativi profusi dall’opposizione politica e mediatica di screditare l’Amministrazione Trump insinuandone l’illegittimità frutto di un “golpe bianco” elettorale (di cui i blocchi giudiziari delle misure presidenziali atte a contrastare il terrorismo e l’immigrazione clandestina sono un caso da manuale), gli Stati Uniti non sono affatto preda di una dittatura arrogante, bensì il sistema istituzionale più garantista e autoimmune di tutti, tanto da mettere disinvoltamente nelle mani di un giudice qualsiasi il veto sul potere esecutivo. Il secondo è che ogni medaglia ha il suo rovescio, e che in questo modo l’ipergarantismo e gli anticorpi di cui è dotato il sistema americano contro i cortocircuiti antidemocratici buttano in paradosso. Dando ragione alle “giurisdizioni rifugio”, il giudice federale Orrick ha infatti stabilito che l’illegalità è legale e che violare la legge va bene. Sicuri che negli Stati Uniti la minaccia alla vita pubblica venga da Trump?

Marco Respinti 

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