Chiese date alle fiamme e abitazioni distrutte, ma i cattolici non abbandonano i villaggi strappati allo Stato islamico
La piana di Ninive, nel Kurdistan iracheno, sarebbe il rimedio sicuro e infallibile per tutte le paturnie occidentali sulle possibilità di dialogo con l’islam. Se non fosse che la testimonianza della persecuzione dei cristiani può spaventare a morte.
Liberati nel dicembre scorso, dopo due anni e mezzo dalla loro conquista da parte dell’Isis nell’agosto 2014, i villaggi di Bartela, Batnaya, Karamles e Qaraqosh, Tel Eskof e Telkef appaiono a prima vista come una massa informe di rovine: il 95% delle costruzioni è sbriciolato.
Fra le macerie e i muri anneriti delle chiese date alle fiamme rimane però, accanto agli altari bruciati col fosforo, le statue della Madonna decapitate e le tombe profanate, l’avvertimento dei terroristi del Califfato: «Presto invaderemo Roma», recita una scritta in arabo su un muro di Karamles. A scanso di equivoci, qualche foreign fighter reclutato in Germania lo ha voluto ribadire anche in tedesco, con un pennarello verde come l’islam: «O, schiavi di merda della Croce, vi ammazziamo tutti. Questa terra è musulmana. Non appartiene a voi immondi».
LA RICOSTRUZIONE
Anche dopo la sconfitta dell’Isis, per le popolazioni fuggite, tornare è un’impresa più eroica di una missione in terra straniera. L’ostilità non è ancora finita perché i peshmerga curdi, che hanno provveduto a saccheggiare e distruggere quel poco che lo Stato islamico aveva lasciato intatto, non lasciano passare nessuno attraverso i loro checkpoint. Sognano l’autonomia dall’Iraq e per questo estendono il più possibile il territorio sotto il loro controllo armato. Più ne presidiano, più ne potranno rivendicare e più ne manterranno. Se a fame le spese saranno i cristiani, poco male. Le loro milizie sono già inserite nell’esercito curdo.
L’unica vera forza di interposizione è la Chiesa cattolica di rito caldeo, che sta fornendo rifugio e assistenza ai profughi e ha già aiutato 170 famiglie a reinsediarsi a Tel Eskof. Mentre due dei loro figli sono partiti per l’esilio, gli Hanko, due genitori con tre ragazzi, sono arrivati da appena una settimana. Grazie ai generatori d’emergenza, la loro abitazione su due piani è dotata di corrente elettrica, ma non c’è ancora l’acqua corrente. Intorno, occorre rifare tutto, mancano le scuole e si insegna sugli autobus. I servizi medici sono assicurati da una clinica, ma non c’è nemmeno un negozio. Eppure, altre 600 famiglie si sono già messe in lista d’attesa e non appena altre villette saranno pronte si trasferiranno. In altri villaggi, si lavora di giorno per sistemare strade e fognature, ma la notte si torna nei campi profughi o negli appartamenti presi in affitto e divisi fra due-tre nuclei familiari. «Per la ricostruzione di case e infrastrutture serve un piano Marshall», dice Alessandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre – Italia, in un appello ai benefattori. La Fondazione di diritto pontificio ha già raccolto e distribuito oltre 16 milioni di euro, circa la metà degli aiuti internazionali giunti in questa terra martoriata, che ospita 9mila profughi, a cui dare vitto, alloggio e la possibilità di ripartire.
L’APPELLO AL PAPA
Senza disprezzare i soldi e la solidarietà internazionale, non si potrà prescindere dal soccorso soprannaturale. Il vescovo di Erbil, monsignor Bashar Matti Warda, invita il Pontefice a scendere in quell’abisso di sofferenza per condividere la Via crucis dei fratelli iracheni: «Papa Francesco ti prego vieni a trovarci. È molto, molto importante. Abbiamo bisogno di te in mezzo a noi. La tua visita ci incoraggerà e ricorderà che abbiamo una missione: portare il messaggio di Gesù Cristo nell’agitato Medio Oriente. Vieni presto».
I MARTIRI AUTENTICI
Avevano già trasferito qui una parte celeste della comunità, seppellendo don Ragheed Ganni nella chiesa di Sant’Adday, nel villaggio di Karamles. Aveva studiato in Italia grazie a una borsa di studio concessagli grazie alla generosità dei benefattori di Acs e nel frattempo testimoniava nelle parrocchie italiane la sofferenza della Chiesa in Iraq. Caduto Saddam Hussein era tornato in Iraq per confortare i suoi fedeli. Non aveva mai ceduto alle minacce ed era rimasto a fare il parroco nella chiesa dello Spirito Santo a Mosul, senza chiuderla mai. 113 giugno 2007 fu assassinato da estremisti musulmani con quattro suoi diaconi. Il martirio autentico, sostenuto per amore di Cristo e dei fratelli, così diverso dal suicidio stragista dei kamikaze, risulta incomprensibile ai soldati di Allah. Tant’è che ne hanno distrutto la lapide.
UN ODIO DIABOLICO
Intanto, benché il chiostro della chiesa di Santa Maria Immacolata a Qaraqosh sia stato sfigurato e trasformato in un poligono di tiro, i14 marzo, primo sabato del mese, monsignor Francesco Lavina, vescovo di Carpi, ha concelebrato una messa insieme ad altri tre sacerdoti. Nella sua diocesi ha appena ricostruito la cupola della cattedrale di Santa Maria Assunta, fatta a pezzi dal sisma del 2012. Sarà proprio Papa Bergoglio a benedirla, il 2 aprile.
In quell’occasione, il vescovo lo informerà di quanto ha visto e sentito perché, commenta, “c’è un terremoto ben più grave di quello materiale ed è quello spirituale, che distrugge nell’uomo ogni forma di umanità e genera una cattiveria gratuita ed insensata, e un odio per la bellezza rappresentata dai luoghi di culto. Un odio che sa di diabolico”.
Ed è ancora più pericoloso quando si traveste da religione di pace.
Andrea Morigi
Da “Libero” dell’8 marzo 2017. Foto di Andrea Morigi