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“In Iraq i cristiani tornano nelle loro case”

10 Marzo 2017 - Autore: Andrea Morigi

Chiese date alle fiamme e abitazioni distrutte, ma i cattolici non abbandonano i villaggi strappati allo Stato islamico

La piana di Ninive, nel Kurdistan iracheno, sarebbe il rimedio sicuro e infallibile per tutte le paturnie occidentali sulle possibilità di dialogo con l’islam. Se non fosse che la testimonianza della persecuzione dei cristiani può spaventare a morte.
Liberati nel dicembre scor­so, dopo due anni e mezzo dalla loro conquista da parte dell’Isis nell’agosto 2014, i vil­laggi di Bartela, Batnaya, Ka­ramles e Qaraqosh, Tel Eskof e Telkef appaiono a prima vi­sta come una massa informe di rovine: il 95% delle costru­zioni è sbriciolato.
Fra le ma­cerie e i muri anneriti delle chiese date alle fiamme rima­ne però, accanto agli altari bruciati col fosforo, le statue della Madonna decapitate e le tombe profanate, l’avverti­mento dei terroristi del Calif­fato: «Presto invaderemo Ro­ma», recita una scritta in ara­bo su un muro di Karamles. A scanso di equivoci, qualche foreign fighter reclutato in Germania lo ha voluto ribadi­re anche in tedesco, con un pennarello verde come l’i­slam: «O, schiavi di merda della Croce, vi ammazziamo tutti. Questa terra è musulma­na. Non appartiene a voi im­mondi».

LA RICOSTRUZIONE

Anche dopo la sconfitta del­l’Isis, per le popolazioni fuggi­te, tornare è un’impresa più eroica di una missione in ter­ra straniera. L’ostilità non è ancora finita perché i pesh­merga curdi, che hanno provveduto a saccheggiare e di­struggere quel poco che lo Stato islamico aveva lasciato intatto, non lasciano passare nessuno attraverso i loro che­ckpoint. Sognano l’autono­mia dall’Iraq e per questo estendono il più possibile il territorio sotto il loro control­lo armato. Più ne presidiano, più ne potranno rivendicare e più ne manterranno. Se a fame le spese saranno i cristia­ni, poco male. Le loro milizie sono già inserite nell’esercito curdo.

L’unica vera forza di inter­posizione è la Chiesa cattoli­ca di rito caldeo, che sta for­nendo rifugio e assistenza ai profughi e ha già aiutato 170 famiglie a reinsediarsi a Tel Eskof. Mentre due dei loro figli sono partiti per l’esilio, gli Hanko, due genitori con tre ragazzi, sono arrivati da appe­na una settimana. Grazie ai generatori d’emergenza, la lo­ro abitazione su due piani è dotata di corrente elettrica, ma non c’è ancora l’acqua corrente. Intorno, occorre ri­fare tutto, mancano le scuole e si insegna sugli autobus. I servizi medici sono assicurati da una clinica, ma non c’è nemmeno un negozio. Eppu­re, altre 600 famiglie si sono già messe in lista d’attesa e non appena altre villette saranno pronte si trasferiranno. In altri villaggi, si lavora di giorno per sistemare strade e fognature, ma la notte si tor­na nei campi profughi o negli appartamenti presi in affitto e divisi fra due-tre nuclei fami­liari. «Per la ricostruzione di case e infrastrutture serve un piano Marshall», dice Ales­sandro Monteduro, direttore di Aiuto alla Chiesa che Soffre – Italia, in un appello ai bene­fattori. La Fondazione di dirit­to pontificio ha già raccolto e distribuito oltre 16 milioni di euro, circa la metà degli aiuti internazionali giunti in que­sta terra martoriata, che ospi­ta 9mila profughi, a cui dare vitto, alloggio e la possibilità di ripartire.

L’APPELLO AL PAPA

Senza disprezzare i soldi e la solidarietà internazionale, non si potrà prescindere dal soccorso soprannaturale. Il vescovo di Erbil, monsignor Bashar Matti Warda, invita il Pontefice a scendere in quel­l’abisso di sofferenza per con­dividere la Via crucis dei fra­telli iracheni: «Papa France­sco ti prego vieni a trovarci. È molto, molto importante. Ab­biamo bisogno di te in mezzo a noi. La tua visita ci incorag­gerà e ricorderà che abbiamo una missione: portare il mes­saggio di Gesù Cristo nell’agi­tato Medio Oriente. Vieni pre­sto».

I MARTIRI AUTENTICI

Avevano già trasferito qui una parte celeste della comu­nità, seppellendo don Raghe­ed Ganni nella chiesa di San­t’Adday, nel villaggio di Ka­ramles. Aveva studiato in Ita­lia grazie a una borsa di stu­dio concessagli grazie alla ge­nerosità dei benefattori di Acs e nel frattempo testimo­niava nelle parrocchie italia­ne la sofferenza della Chiesa in Iraq. Caduto Saddam Hus­sein era tornato in Iraq per confortare i suoi fedeli. Non aveva mai ceduto alle minac­ce ed era rimasto a fare il par­roco nella chiesa dello Spirito Santo a Mosul, senza chiuder­la mai. 113 giugno 2007 fu as­sassinato da estremisti musul­mani con quattro suoi diaco­ni. Il martirio autentico, soste­nuto per amore di Cristo e dei fratelli, così diverso dal suici­dio stragista dei kamikaze, ri­sulta incomprensibile ai sol­dati di Allah. Tant’è che ne hanno distrutto la lapide.

UN ODIO DIABOLICO
Intanto, benché il chiostro della chiesa di Santa Maria Immacolata a Qaraqosh sia stato sfigurato e trasformato in un poligono di tiro, i14 mar­zo, primo sabato del mese, monsignor Francesco Lavi­na, vescovo di Carpi, ha con­celebrato una messa insieme ad altri tre sacerdoti. Nella sua diocesi ha appena rico­struito la cupola della cattedrale di Santa Maria Assunta, fatta a pezzi dal sisma del 2012. Sarà proprio Papa Bergoglio a benedirla, il 2 aprile.
In quell’occasione, il vescovo lo informerà di quanto ha visto e sentito perché, commenta, “c’è un terremoto ben più grave di quello materiale ed è quello spirituale, che distrugge nell’uomo ogni forma di umanità e genera una cattiveria gratuita ed insensata, e un odio per la bellezza rappresentata dai luoghi di culto. Un odio che sa di diabolico”.
Ed è ancora più pericoloso quando si traveste da religione di pace.

Andrea Morigi 

Da “Libero” dell’8 marzo 2017. Foto di Andrea Morigi 

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