di Cristina Cappellini
Lo storico incontro, nell’anno del Signore 1219, tra san Francesco d’Assisi (1181/1182-1226) e il sultano d’Egitto Malik Al-Kamil(1177-1238) rappresenta ancora oggi il simbolo del dialogo interreligioso per eccellenza. Non è stata infatti casuale ‒ anche se da molti non è stata compresa ‒ la recente visita compiuta ad Abu Dhabi di Papa Francesco nell’anniversario di quell’evento, così come non lo è quella in Marocco proprio in questi giorni.
Visto il periodo storico che stiamo vivendo, ferito da una conflittualità generale e da una profonda inquietudine spirituale, l’incontro di 800 anni fa assume una valenza culturale (e non solo) ancora maggiore.
È questa la considerazione che ha
ispirato Francesco e il Sultano,
il nuovo spettacolo della storica compagnia degli Incamminati, che ha debuttato
lunedì 18 marzo a Milano, al Teatro Rosetum.
Anche la scelta del luogo non è casuale, visto che il Centro Culturale Rosetum,
una bella realtà che gestisce anche il teatro omonimo, si fonda proprio su una
comunità di frati francescani.
Ma c’è stata un’altra coincidenza che non si può trascurare: poche ore prima del debutto le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia dell’uccisione, in Siria, di un ragazzo italiano, Lorenzo Orsetti, per mano dell’ISIS. Un italiano (definito dai terroristi un “crociato”) che aveva deciso di unirsi ai combattenti curdi contro lo “Stato islamico”.
Così, già durante le prime scene, non si è potuto fare a meno di collegare mentalmente gli accadimenti reali e quelli sul palcoscenico.
Lo spettacolo, ambientato ai giorni nostri, ruota intorno a tre personaggi: un giornalista/reporter, un frate francescano e un terrorista islamico.
In un nascondiglio che pare dimenticato da tutti, uno jihadista tiene infatti prigioniero un giornalista italiano recatosi in Terra Santa ad intervistare (quasi “interrogare”) un frate francescano proprio sullo storico incontro tra il Poverello di Assisi e il potente musulmano.
Il dialogo con il frate sull’esperienza di san Francesco e sul significato di quell’incontro, che ritorna più volte durante lo spettacolo, sembra aver segnato a tal punto il giornalista da diventare fonte di ispirazione per il successivo confronto con il suo rapitore. L’uso della telecamera è una costante notevole di tutte le scene, emblema dell’informazione giornalistica e allo stesso tempo della propaganda jihadista piegata ai moderni mezzi di comunicazione.
È dietro una telecamera, infatti, che prendono vita gli interrogativi più profondi, quelli che – tra passato e presente – attanagliano l’uomo di fronte ad eventi che lo sovrastano, tenendo banco per tutta la durata dello spettacolo e rappresentandone di fatto la spina dorsale.
Le domande a raffica che in buona parte della rappresentazione (ci) vengono poste ricevono volutamente poche risposte, ma offrono tanti spunti per una riflessione che accomuna tutti: cristiani e musulmani, religiosi e laici, credenti e non credenti.
La ricerca della verità e di ciò che si è sta alla base dei dialoghi tra i protagonisti, stimolati soprattutto dal giornalista, un uomo che sembra aver smarrito la propria identità culturale e religiosa, e che si trova intrappolato in un meccanismo più grande di lui, in preda all’ansia da scoop prima e alla forza della sopravvivenza poi.
Due stati d’animo che si tramutano presto in qualcosa d’altro: il primo in sete di conoscenza (cosa mosse davvero san Francesco nel 1219, e cosa si dissero il frate e il Sultano?) e il secondo in un estremo confronto (o di fatto incontro?) con lo jihadista, che pare essere alla ricerca (forse inconsapevole) di ciò che è vero e di ciò che è invece pura messa in scena a fini utilitaristici e propagandistici. Una messa in scena che lo renderebbe a sua volta una “vittima”, pezzo di un ingranaggio più grande, pedina mossa da altri più potenti di lui.
Azzeccata peraltro la scelta di far interpretare quel ruolo (non facile) a Hossein Taheri, che tra i tre attori in scena è sembrato quello calato meglio nella parte. Gli intensi dialoghi che scorrono sul palcoscenico rappresentano in fondo i dilemmi con cui ancora oggi l’uomo è costretto a confrontarsi: fede e integralismo, realtà e finzione, spiritualità e potere.
Il lavoro drammaturgico di Angela Demattè, autrice della pièce, convince, evidenziando bene tutto questo e invitando il pubblico a esserne partecipe, così come la regia di Andrea Chiodi, che appassiona lo spettatore, lo porta a vivere su piani diversi e in diverse situazioni il medesimo scavo interiore, ponendolo di fronte ad uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo: il rapporto tra islam e cristianesimo e allo stesso tempo fra spiritualità e secolarizzazione (da entrambe le parti).
Lo spettacolo è ben fatto (anche se venti minuti di durata in più non guasterebbero, anzi!). C’è da augurarsi che abbia una buona circuitazione perché andrebbe visto e rivisto per cogliere le tante sfumature che rischiano di essere risucchiate dallo svolgersi concitato dei dialoghi e degli accadimenti.
Sabato, 30 marzo 2019