Da “La bianca torre di Echtelion” del 1 giugno 2017. Foto da Desiringood
«Ora che ho novantatré anni questa è (presumibilmente) la mia ultima curatela nella lunga serie degli scritti di mio padre, molti dei quali mai pubblicati prima […]». Viene il magone a leggere il commiato, verosimile, che Christopher Tolkien, figlio e scrupoloso curatore letterario di J.R.R. Tolkien, firma nella prefazione a Beren e Lúthien, un ultimo incompiuto del padre da lui ripristinato in tutta la sua rotondità e illustrato dal talentuoso Alan Lee, che esce oggi in contemporanea mondiale, in Italia da Bompiani (pp. 294, euro 22,00).
La storia, di amore e avventura, tra Beren, della stirpe degli Uomini, e l’elfo femmina Lúthien, la più bella di tutti i figli di Ilúvatar (l’Unico Dio della creazione tolkieniana), figlia di un re elfico e di una maia (l’equivalente un angelo femminile), è tra le più struggenti che il filologo di Oxford abbia mai ideato. Addirittura ci s’identificò, tanto da volere quei due nomi sulla tomba sua e di sua moglie. La versione classica del racconto è pubblicata ne Il Silmarillion, un “libro di libri” del 1977 che sposa la cosmogonia tolkieniana e la mitologia dei tempi antichi. Ma dalla “fabbrica” di quel testo risorge ora una ricca messe di materiali raccolti in un volume ragionato e commentato in cui l’acribia filologica e il fascino narrativo divengono una sola carne. È davvero il coronamento della meticolosa opera di salvaguardia di testi preziosi altrimenti perduti che da decenni lettori e studiosi apprezzano, ma che invece la Repubblica non ha capito.
Dalle sue colonne, lunedì scorso, Michele Mari, apprezzato scrittore e traduttore (ma traduce history con “storie”, cioè racconti), si è scagliato contro “l’operazione ricupero”, sostanzialmente bollandola come inutile, se non persino insinuando che in essa vi sia più Christopher che J.R.R. E pure che la smania del primo di lavorare sul lascito del secondo abbia solo oscurato l’opera tolkieniana.
Risibile, però. Infatti, senza le edizioni curate da Christopher, di Tolkien padre (del Tolkien racconteur della Terra di Mezzo) oggi avemmo esclusivamente Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli. Non è poco, ma mancherebbe totalmente la profondità mitopoietica del fondale. Non sapremmo cioè nulla né della Creazione né di angeli e demoni, non avremmo idea né di come il Mondo fu fatto né di come in esso sia entrato il Male. E soprattutto non percepiremmo il valore delle grandi tribolazioni sopportate da arcangeli, elfi e uomini per giungere puntuali, pur inconsapevolmente, lungo i millenni, a quel 25 marzo dell’anno 3019 della Terza Era (1419, secondo il Calendario della Contea), in cui tutto fu compiuto davanti al Nero Cancello di Mordor: la sconfitta possibile, anzi avvenuta, del Nemico di ogni cosa bella, buona, giusta e libera.
Senza il lavoro di Christopher non avremmo cioè mai subodorato il katéchon che per millenni i figli d’Ilúvatar, pure cadendo ma sempre risollevandosi, hanno rappresentato nel mondo di Tolkien. Nel linguaggio di Paolo di Tarso, il katéchon è il “potere (religioso e politico) che raffrena”, rinviando la venuta dell’Anticristo all’apocalisse finale. L’universo dei racconti tolkieniani “perduti” è, per quell’universo narrativo, il racconto del “potere che frena” prima Morgoth (ora bloccato nel Vuoto per sempre), poi il suo scherano Sauron in attesa che maturino i tempi della vittoria definitiva. E, alla fine de Il Signore degli Anelli, quella pienezza dei tempi venne. Per Tolkien, Il Signore degli Anelli conclude il ciclo del mito e apre quello della storia fattuale, il nostro. Non sarebbe accaduto, dice il gioco letterario tolkieniano, senza l’ultima vittoria a Mordor ne Il Signore degli Anelli, dunque senza i “tempi antichi” svecchiati da Christopher, che quel successo remotamente prepararono. La riscoperta dell’amore tra Beren e Lúthien che sfida il Signore del Male non è una lurida operazione di cassetta, bensì un tassello decisivo di una storia grande. Ma per comprenderlo occorre essere grandi di cuore.
Marco Respinti