Da La bianca Torre di Ecthelion dell’ 11/03/2018. Foto da articolo
Si chiama fame, ed è il guinzaglio con cui la Cina pascola la Corea del Nord, stabilendone di volta in volta la lunghezza in base ai propri interessi. Dopo la recente escalation, adesso è il momento dell’apertura, ma tutto dipende da come Pechino reagirà ai dazi posti dagli Stati Uniti su acciaio e alluminio. Anche perché il militarismo fa da perno all’ideologia nordcoreana con il nome di “Songun”. Mutuato dal maoismo cinese, lo si potrebbe tradurre con “Military First”: per la maggior gloria della rivoluzione comunista, la forza economica e politica trainante del Paese è l’esercito.
Dal 1994 è strategia ufficiale del Paese, cioè da quando salì al potere Kim Jong-il (1941-2011) ‒ genitore del despota attuale, Kim Jong-un ‒, ma la sua origine risale al programma dell’Unione per Abbattere l’Imperialismo creata il 17 ottobre 1926 dal fondatore della Corea rossa, Kim Il-sung (1912-1994), e alle due pistole ricevute dal padre, Kim Hyong-jik (1894-1926). Lo scrive il sito governativo in italiano “Gruppo di studio del kimilsungismo-kimjongilismo”, spiegando che il “Sogun” serve al progresso dello “Juché” (loro accentano dove altri omettono). Ovvero l’ideologia patriottico-comunista ufficiale del Paese citata nel preambolo della Costituzione nordcoreana: «La Repubblica Popolare Democratica di Corea è la madrepatria socialista del Juché, che incarna l’ideologia e la direzione del Grande Dirigente, il compagno Kim Il-sung».
“Juché” vale “autarchia”, cioè il mito dell’autogestione assoluta, della terzietà rispetto alle superpotenze e della superiorità delle masse nazional-proletarie nordcoreane. Nel 2011, uno studio piuttosto celebre dello statunitense Brian Myers, The Cleanest Race: How North Koreans See Themselves and Why it Matters, ha evidenziato anche gli aspetti razzistici di questa ossessione. Ne sarebbe origine un discorso intitolato, con stile inconfondibile, Eliminazione del dogmatismo e del formalismo e il costituirsi dello Juché nel lavoro ideologico, che Kim Il-sung pronunciò 28 dicembre 1955. Il suo credo è essenziale: l’uomo è il padrone di ogni cosa e decide tutto. Dio dunque esiste ed è l’uomo, come insegnano Karl Marx, Friedrich Engels e Ludwig Feuerbach; ma non si tratta di semplice irreligione, bensì di ateismo organizzato: la massa, nazionalizzata (con meccanismi bene illustrati dallo storico tedesco-americano George L. Mosse), è il “popolo eletto” artefice dello sviluppo della nazione, e il “caro leader” il Messia vero uomo e vero comunista. Eun Hee Shin, docente al Simpson College di Indianola, nell’Iowa, ne ha prodotto lo studio forse più preciso, e simpatetico, pubblicato nel 2007 nel volume collettaneo Religions of Korea in Practice a cura di Robert E. Buswell, Jr. Oggi s’insegna che Kim Il-sung è immortale (e dunque il vero capo del regime) e che la fede in lui procura la vita eterna: una volta morti, i nordcoreani resterebbero infatti nella rete sociopolitica promossa dallo “Juché”, che dunque va difeso. Appunto con il “Songun”.
Lo “Juché” ha persino un calendario proprio, introdotto il 9 settembre 1997, anniversario della fondazione della patria socialista. (Anche i rivoluzionari francesi e l’Unione Sovietica imposero la settimana di dieci giorni per sopprimere la domenica del Signore, ma in Russia il progetto fallì perché il popolo continuava a onorare la festa di nascosto). L’orologio di Pyongyang è dunque sincronizzato sul 15 aprile 1912, il Giorno del Sole, cioè la data di nascita del “dio-in-terra” Kim Il-sung. Siccome quello era l’anno 1, oggi saremmo nel 107.
Nella Cambogia genocida dei khmer rossi vigeva una ideocrazia nazional-comunista e parareligiosa simile, dominata parossisticamente dal dio-partito Angkar. Non a caso il filosofo tedesco-americano Eric Voegelin ha definito i totalitarismi “religioni capovolte”.
Ora, il web reca traccia di qualche “gruppo di studio” dello “Juché” attivo anche in Italia, benché sfuggente. Chissà come gli “antifa” italiani vivono lo psicodramma della razza nordcoreana superiore.
Marco Respinti