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“La Corte Suprema vendica Trump (per ora)”

29 Giugno 2017 - Autore: Marco Respinti

Da “La bianca torre di Echtelion” del 28 giugno 2017. Foto da La Repubblica 

Lunedì 26 giugno, il famoso, anzi famosissimo Ordine Esecutivo 13780, Protecting The Nation From Foreign Terrorist Entry Into The United States, del 6 marzo, che sostituisce l’Ordine Esecutivo 13769, titolato allo stesso modo ed emesso il 27 gennaio, è uscito dal congelatore. La Corte Suprema federale lo ha infatti rimesso in vigore consentendo così agli Stati Uniti di chiudere per tre mesi le frontiere con Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen, di bloccare per sei gl’ingressi dei profughi provenienti da qualunque Paese riservandosi poi di rinegoziare la questione Stato per Stato, e di sospendere a tempo indeterminato, ovvero fino a che non siano risolte in maniera soddisfacente le questioni di sicurezza, l’arrivo dei rifugiati dalla Siria. Eccezione verrà ovviamente fatta per i provenienti dai suddetti Paesi che risiedono e lavorano negli Stati Uniti nonché per gli studenti, tutto dotati di permesso regolare (green card). Alcuni tribunali federali avevano infatti bloccato l’applicazione del decreto, inizialmente sostenendo che nella prima versione non fosse sufficientemente chiaro lo status degli stranieri dotati di regolare permesso (ma era un pretesto), dunque, dopo avere costretto la Casa Bianca a una seconda versione del testo, ritenendolo illegale solo per averlo giudicato inefficace e inopportuno.

Trump ha cantato subito vittoria, perché di vittoria davvero si tratta, ma è proprio Trump a sapere meglio di chiunque altro che in realtà è solo un successo parziale. A ottobre, infatti, quando arriverà la sentenza finale sul caso, potrebbe essere tutto da rifare.  Già ora, comunque, l’intenzione del presidente è stata vanificata. Nonostante i media che lo hanno subito maliziosamente ribattezzato “Muslim Ban”, il famoso ordine esecutivo non è affatto un decreto in sé anti-musulmano e non viola per nulla il sacrosanto diritto alla libertà religiosa; mira solo ad arginare la minaccia terroristica chiudendo le frontiere per il tempo necessario a riorganizzare le difese. Ma operazioni di questo tipo hanno senso solo se messe in campo alla svelta, se implementate subito. Non chiudendo la stalla quando i buoi sono scappati. L’avere impedito a Trump di riorganizzare la sicurezza nazionale mesi fa, quando l’intelligence metteva in guardia Washington da nuove temibili forme di dissimulazione jihadista, ha semplicemente vanificato l’intento difensivo del presidente. Grazie alla Corte Suprema, gli Stati Uniti possono riorganizzare i controlli alle frontiere adesso, ma probabilmente l’efficacia del provvedimento è perduta per sempre. Certo, di quel provvedimento è proprio l’efficacia tecnica nel fermare le minacce terroristiche quella ancora da dimostrare (come si è detto e ripetuto da queste colonne), ma per colpa di questo ritardo non lo si potrà fare mai.

In questo nuovo capitolo di una storia che pare infinita c’è peraltro un secondo aspetto notevole, ed è la battaglia senza quartiere in corso dentro la Corte Suprema. I tribunali federali che a suo tempo hanno bloccato sia la prima sia la seconda versione dell’ordine esecutivo presidenziale hanno giocato la carta dell’illegittimità. Se però la Corte Suprema ha riammesso il provvedimento pur senz’ancora pronunciarsi in toto su di esso, significa che come minimo quell’illegittimità non esiste. E questo è un punto fermo. La questione vera ha infatti sempre e solo riguardato il potere del presidente di chiudere temporaneamente, a fronte di ragioni valide, le frontiere del Paese. Qualunque tribunale che si pronunciasse in merito, dovrebbe avere di mira solo questa questione. Un giudice federale potrebbe cioè legittimamente considerare quel provvedimento sbagliato sul piano politico e culturale; ma se il puro porre in essere tale provvedimento rientra nelle prerogative legittime del presidente, nessuna delle opinioni personali di natura politica e culturale di quel giudice deve interferire. Ciò che invece è accaduto è che alcuni giudici federali hanno bloccato il provvedimento anteponendo il proprio criterio politico-culturale alla certezza della norma che garantisce al presidente degli Stati Uniti il potere di chiudere temporaneamente le frontiere all’immigrazione, mentre invece la Corte Suprema ha giudicato legittimo quel potere tenendo per sé le proprie opinioni sulla sua efficacia. Una volta tanto, cioè, dopo decenni di abusi, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha fatto la Corte Suprema degli Stati Uniti.

Ora, siccome il sottile passaggio dalla certezza del diritto alle opinioni personali si è negli scorsi mesi giocato tutto sul crinale della partigianeria politica, la partita fra liberal e conservatori dentro la Corte Suprema sarà combattutissima sino a ottobre.

La vittoria in questo primo round è certamente da ascriversi ai conservatori (il presidente John G. Roberts, Samuel Alito, Clarence Thomas e Neil Gorsuch), ma, stante che in quell’assise i conservatori sono in minoranza, significa che al loro giudizio si sono arresi pure i liberal (Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Anthony Kennedy). Non perché i liberal siano impazziti o perché abbiano capitolato, giacché non ve n’è ragione, ma perché, pur da sponde politiche opposte ai loro colleghi conservatori e alla Casa Bianca, hanno semplicemente constato che quanto fatto da Trump emanando l’Ordine Esecutivo 13769 rientra tranquillamente nei poteri presidenziali. E che dunque tutto il resto è noia. La quale, travestita da ideologia, potrà fare ancora molto da qui alla sentenza finale, non però negare l’evidenza del precedente stringente di oggi. Se quindi in ottobre volesse il Cielo che venisse messa la parola fine a una querelle ridicola, stabilendo in modo incontrovertibile che Trump ha il diritto di fare quel che ha fatto, si potrà più serenamente giudicare l’efficacia politica o l’opportunità culturale dell’Ordine Esecutivo 13769. Cioè parlare finalmente di contenuti, senza gridare vanamente all’impeachment ogni volta che Trump tira il fiato.

 Marco Respinti

 

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Info Marco Respinti

Marco Respinti, nato a Milano nel 1964, è giornalista, saggista, traduttore e conferenziere. Collabora con diversi quotidiani e periodici in Italia e all’estero. Senior Fellow a The Russell Kirk Center for Cultural Renewal, un’organizzazione educativa statunitense che ha sede a Mecosta, nel Michigan, è anche socio fondatore e membro del consiglio direttivo del Center for European Renewal, un’organizzazione educativa paneuropea che sede a L’Aia, nei Paesi Bassi. Autore di libri, ha curato e/o tradotto opere di Edmund Burke, Charles Dickens, T.S. Eliot, Russell Kirk, J.R.R. Tolkien, Gustave Thibon, Régine Penoud, Colin Duriez e Alejandro A. Bermúdez. Curatore, con altri, di opere collettanee di alta divulgazione a carattere enciclopedico, già caporedattore de il "Domenicale. Settimanale di cultura", è direttore di "International Family News" portale online d'informazione pro life e pro family in più lingue), nonché direttore responsabile di "Bitter Winter: A Magazine on Religious Liberty and Human Rights in China" (quotidiano online in cinque lingue) e del periodico accademico multilingue "Journal of CESNUR". Sposato, è padre di due figli.

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