Da “La nuova bussola quotidiana” del 1 dicembre 2016
Il Corriere della Sera di qualche giorno fa ha pubblicato un intervento del filosofo Emanuele Severino per il quale, a proposito delle riforme e del referendum costituzionale, il peso del referendum dipende da una “ipotesi”. Per i fautori del Sì la riforma appare adeguata ai bisogni della società italiana e capace di risolvere alcuni suoi importanti problemi: ma si tratta – appunto – di una ipotesi, perché essa è il risultato di un compromesso. Votare Sì significherebbe non tanto condividere i contenuti della riforma, quanto assecondare una “propensione per il cambiamento della Costituzione”: questo cambiamento, nella prospettiva di Severino, si porrebbe nel solco del destino che accomuna le democrazie occidentali, quello della supremazia della tecnica economica sulla politica.
Severino afferma che se la tecnica ha conseguito questo primato, sarà la stessa tecnica a rendere il mondo meno pericoloso: ma per farlo dovrà tenere sotto controllo (e quindi limitare) la domanda di democrazia. Scrive Severino che “la nostra è l’epoca della specializzazione scientifica, quindi anche giuridica; ma la scienza è diventata specializzazione proprio per sbloccare le paralisi dell’agire umano, ossia per aumentare la potenza dell’uomo, paralizzata invece dai Limiti che le gradi forme della tradizione le impongono. Se però la specializzazione è praticata in modo da farle perdere di vista il contesto in cui essa si trova, essa diventa un fattore bloccante, riduce la potenza dell’uomo. Ora, il contesto dei contesti, nel mondo attuale, è la sequenza a cui ho accennato: quella che dal primato della politica conduce al primato della tecnica. In questa situazione, ogni rivendicazione del primato della politica ha la pretesa di risalire la corrente, è cioè una lotta di retroguardia. La stessa economia capitalistica, che ancora domina il mondo, ha istituito rapporti tali, con l’apparato tecno-scientifico, che fanno trasparire la destinazione al dominio da parte di quest’ultimo. La cautela con cui si procede nelle riforme costituzionali è dovuta all’esigenza che non vadano perduti certi valori imprescindibili contenuti nella Costituzione italiana — soprattutto quelli riguardanti i diritti dell’uomo. Ma la destinazione al dominio della tecnica è insieme la formazione di un diverso modo di essere uomo — diverso dalle interpretazioni che dell’esser uomo sono state date lungo la storia dell’Occidente: cristiana, rinascimentale, illuminista, capitalistica, comunista, eccetera. La gran questione è allora se una Costituzione, mostrando di difendere i diritti umani — e dando a questo suo intento un’impronta decisamente giusnaturalistica — non abbia invece a difendere una di quelle interpretazioni, lasciando sullo sfondo il senso autentico che l’esser uomo ha assunto lungo la storia dell’Occidente”.
Dall’analisi di Severino sembra che questa riforma sia figlia di quella “democrazia idraulica” in cui, come ricorda von Hayek (in La via della schiavitù, 1944) «Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi». In quest’ottica le forme democratiche non scompaiono, ma sono svuotate di contenuto e di reale efficacia, poiché il potere politico tende ad identificarsi sempre più col potere economico e a essere espressione degli interessi di pochi gruppi monopolistici. Quanto più i cittadini sono alienati dalle decisioni che li riguardano, con l’affidamento del relativo potere alle élite dei “tecnici”, tanto più una nazione risulterà governabile ed efficiente.
Se questo è vero, la funzione del voto referendario è di operare una verifica interna alle élite, di conferire maggior peso ai centri di interessi che le animano, oltre che di misurare della capacità dei leader di far credere al popolo che per esso in questo modo stanno facendo il meglio. Quello in atto è uno dei tanti episodi – non il meno importante – di sottomissione della tecnica al diritto, con gruppi di potere economico, titolari della produzione tecnologica, che condizionano il legislatore, piegando alle proprie ragioni l’azione di quest’ultimo. Riprendendo l’analisi del giurista Natalino Irti, “tutti, partiti di governo e partiti d’opposizione, dichiarano di attuare o di volere riforme, poiché il diritto appare agli uni ed agli altri privo di durata, ossia variabile e manipolabile dalla volontà umana. L’ossessivo riformismo è intimamente legato all’idea di produzione, alla convinzione che le leggi siano tratte dal nulla o risospinte nel nulla. Il nichilismo giuridico è propriamente in questa perdita del centro, nell’incondizionata volontà che, attraversando i canali di procedure produttive, passa di fine in fine, e non sa verso dove si agiti e svolga” (Nichilismo e concetti giuridici. Intorno all’aforisma 459 di “Umano, troppo umano”).
Questo tema così centrale e’ stato oggetto del Dialogo su diritto e tecnica, articolatosi fra gli stessi Irti e Severino, da cui emerge che non è più il contenuto che sorregge e giustifica la norma: valgono di più le procedure proprie di ciascun ordinamento. E le procedure sono l’esito di una volontà, non la ricerca e l’applicazione di verità: la validità di una norma dipende dalla coerenza formale con una procedura, non dalla sostanza del suo contenuto. La base ideologica della riforma costituzionale è costituita da questi fondamenti nichilistici: la Costituzione non è più considerata per i contenuti cui conferisce disciplina, ma dalla funzionalità delle procedure produttrici che, al pari di catene di montaggio, a quei contenuti sono indifferenti. La violenza manipolatrice insita in questo processo fa sì che la legge sia ormai priva di giustificazione: ciò che conta è il successo, l’accadere di un fatto in quanto fatto. Soltanto un principio più alto del divenire, sovrastante la casualità del volere, sarebbe in grado di sottrarre le norme all’oscillazione tra l’essere e il niente. Dal nichilismo normativo il giurista non può uscire: egli ha dinanzi a sé la discorde molteplicità delle norme, la casualità delle decisioni politiche, un denso impasto irriducibile a unità di scopo.
Si profilano due ordini di scopi entro i quali, come sostiene Irti, le volontà politico-giuridiche devono scegliere: da un lato la funzionalità del mercato, espressa in un diritto indifferenziato fatto solo di spazi astratti e illimitati, che raggiunge il più elevato livello di presunta razionalità tecnica e di pretesa calcolabilità; dall’altro lato il diritto protettivo delle differenze, in cui l’identità è centrale e gli individui sono in grado di far valere le proprie scelte. ll referendum ripropone quest’alternativa e votare no ha il senso di un segnale di resistenza alla deriva nichilistica.
Daniele Onori