Da “La bianca torre di Echtelion” del 21 agosto 2017. Foto da articolo
I suprematisti bianchi sono sempre ingiustificabili e a volte, come a Charlottesville, in Virginia, anche assassini. Un solo morto innocente per le strade è già troppo. Ma suprematisti bianchi e morti innocenti a parte, la “guerra delle statue” scatenata dal talebanismo liberal è follia pura. Per la verità, la cosa va avanti da anni. Ma oggi, complice il fatto che se piove è ovviamente colpa di Donald J. Trump, la caccia alle streghe si è riaccesa. Addirittura The New York Times censisce gli abbattimenti con aggiornamenti constanti e per la CNN sono circa 1500 i soggetti pronti per i nuovi iconoclasti. Sgomberiamo però subito il campo da processi alle intenzioni e retropensieri, chiarendo l’argomento.
La storia consegna memorie. Solo un relativista potrebbe sostenere che il passato è indolore. Ma non tutti gli emblemi del passato sono identici, nemmeno quelli “sgradevoli”. Un conto sono le statue di despoti dalle mani lorde di sangue che un popolo appena liberatosi dal loro giogo trova ancora nelle piazze pubbliche: per esempio le statue di Lenin e di Stalin nella Russia uscita dal comunismo. Un altro conto sono i segni di sé che un regime passato, pur antipatico, lascia oggettivamente ai posteri: per esempio il fascismo in Italia, Paese dove non esistono monumenti osannanti il mussolinismo, ma tracce di quel che è stato. Davvero si pensa di sostituire i tombini di Roma, abbattere il Foro Italico, l’EUR e la Stazione Centrale di Milano o devastare Latina e Sabaudia? Terzo e ultimo conto sono le statue che ricordano personaggi, luoghi e momenti legati alla Guerra di secessione americana (1861-1865), quella cioè fra “nordisti” e “sudisti” (virgolette di rigore, visto che in inglese quei termini non esistono, ma si usano solo northern, “settentrionale”, e southern, “meridionale”). Le statue “sudiste” non sono infatti il retaggio odioso di un regime esecrando: sono i segni della difficilissima ma concreta riconciliazione nazionale tentata dagli Stati Uniti nel dopoguerra. Sono monumenti eretti su suolo demaniale dopo la Guerra di secessione con il permesso delle autorità per andare incontro ai vinti. La furia odierna sta cioè vanificando il tentativo di sanare una ferita.
La Guerra di secessione americana fu una ecatombe enorme dentro una tragedia immane. Divise il Paese fratello contro fratello, famiglia contro famiglia. Dopo di essa, il governo federale vincitore (i “nordisti”) mise in atto una feroce politica di aggressione culturale tesa a “rieducare” la parte “sbagliata” del Paese; fu chiamata “Ricostruzione” e durò fino al 1877. La vera rivoluzione ideologica americana non fu affatto la Guerra d’indipendenza (1775-1783), ma, appunto, la Guerra di secessione seguita dal dopoguerra neogiacobino. Eppure non tutto la buona creanza sparì. Lentamente, a macchie e a tratti, un po’ per convenienza e un po’ per convinzione, i nuovi Stati Uniti usciti dal quel crogiuolo di sangue si resero conto di una verità politica nota già ai consoli e ai cesari di Roma antica: il parcere subiectis. Si cercò, insomma, di non umiliare oltremodo una popolazione già troppo provata. Non è che un monumento possa far tornare in vita i parenti morti, ma per com’è fatta la mentalità “sudista” (e in genere americana) è un gesto che ha la sua efficacia. Una statua o una stele in memoria di un soldato confederato hanno sempre avuto questo significato ideale per ogni americano del Nord o del Sud e di qualsiasi colore.
Perché la cosa più indisponente di questa “guerra della memoria” è che gli odierni sbianchettatori del passato vorrebbero far credere al mondo (e con molti commentatori ci sono riusciti senza nemmeno tanto sforzo) che dietro ogni monumento “sudista” stia nascosto un razzista, un negriero, un segregazionista. Ma non è così. Lo sarebbe se la causa “sudista” fosse stata ipso facto la causa della schiavitù. Bene inteso: la schiavitù dei neri nel Sud statunitense fu una maledizione indifendibile. Ma il Sud non fu solo schiavitù, né la Guerra di secessione scoppiò per quello. Se fosse stato così, l’emancipazione dei neri non sarebbe stata proclamata dal presidente Abraham Lincoln (1809-1865) il 1° gennaio 1863, cioè dopo 20 mesi di conflitto, e con un atto legislativo valido solo per gli Stati rimasti nell’Unione, dove gli schiavi non c’erano, dato che da quasi due anni gli Stati schiavisti avevano dato vita a un altro Paese sovrano, gli Stati Confederati d’America. Né lo stesso Lincoln si sarebbe prodotto in frasi razziste e segregazioniste come documentato in italiano nel Dizionario elementare del pensiero pericoloso (Istituto di Apologetica, Milano 2016).
La Guerra di secessione americana fu piuttosto lo scontro fra due modi d’intendere il potere e le istituzioni che portò al punto di non ritorno un’antica divisione nel pensiero, nel costume e nelle cultura del Nord e del Sud. Disgraziatamente nell’ethosdel Sud vi era anche la schiavitù, ma chi pensa che una statua patriottica sia automaticamente una rivendicazione razzista ragiona esattamente come il Ku Klux Klan anche se è evoluto e di sinistra. E ne fa lo sporco gioco, riaprendo ferite antiche anziché contribuire a sanarle. Cosa succederà quando i cacciatori di statue arriveranno nel Cimitero nazionale di Arlington, Virginia, a due passi da Washington, dove i caduti delle guerre americane riposano all’ombra del Memoriale ai Confederati dello scultore ebreo Sir Moses Jacob Ezekiel (1844-1917) il cui bronzo documenta una delle verità più nascoste della Guerra di secessione, ovvero i soldati nei che combatterono volontari nelle fila “sudiste” proprio perché di per sé il “sudismo” e quella guerra non c’entrano con il razzismo?
Marco Respinti