Da La bianca Torre di Ecthelion del 18/12/2017. Foto da articolo
La notizia del giorno è il “Words ban”. Senza un riduzionismo al dì, la stampa non saprebbe infatti come campare. Durante un incontro amministrativo di routine, svoltosi giovedì 14 dicembre nella loro sede ufficiale di Atlanta, in Georgia, alcuni funzionari dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), ovvero l’agenzia dello Health and Human Services Department (HHS, il ministero della Salute) che, occupandosi della prevenzione e del controllo delle malattie, è uno degli snodi chiave della Sanità statale americana, hanno distribuito agli analisti politici presenti una lista di parole e di espressioni da non utilizzare nei documenti che essi prepareranno per la stesura del budget del CDC per l’anno fiscale 2019, previsto nel febbraio 2018. Le locuzioni sono sette: «diritto a», «basato sulla scienza», «diversità», «feto», «supportato da prove», «transgender» e «vulnerabile». Venerdì 15 ne ha dato notizia The Washington Post, riferendosi a fonti anonime. In un altro servizio pubblicato il giorno seguente, lo stesso quotidiano ha aggiunto che il divieto riguarda pure «una seconda agenzia dell’HHS», come emerso in un precedente «[…] briefing svoltosi all’inizio della settimana» per analoghe analisi di budget, e che oltre alle parole proibite ci sarebbe pure l’indicazione di chiamare «Obamacare» il Patient Protection and Affordable Care Act, ovvero la riforma della Sanità firmata dal presidente Barack Obama il 23 marzo 2010, nonché «scambi» i «mercati» dove i cittadini sottoscrivono le polizze assicurative. La fonte è sempre anonima.
La sequenza a ritroso di queste rivelazioni è alquanto curiosa, ma non ci vuole certo uno scienziato per ritenere l’accaduto più che verosimile.
Ora, si può lecitamente ritenere che censurare il vocabolario non sia il modo migliore per combattere la battaglia delle idee, ma con la pura teoria non si è mai vinta nemmeno una partita a bocce. Nella pratica, dunque, ciò che davvero conta sono due dati di fatto. Il primo è questo: l’uso di un frasario partigiano e non scientifico da parte di un organismo medico-sanitario dello Stato è intollerabile sia di principio (cioè sempre) sia di fatto (ora che è contrario all’indirizzo politico del governo in carica). Il secondo è che, usando ufficialmente quel frasario infondato, un pezzo dello Stato americano cerca di travestire di oggettività intenzioni meramente ideologiche per contraddire la cultura politica del governo da cui è amministrato e per continuare a mentire ai cittadini. Per questo l’Amministrazione Trump, che oggi esercita il governo della nazione e che dello Stato risponde, è intervenuta. Il vocabolo «transgender», per esempio, non evoca un fatto reale, ma il tentativo di violare la natura umana. Dire, in questo contesto, «diversità», «vulnerabile» o «diritto a» è dunque falsante. Adoperare la neutralità della parola «feto» per nascondere la soppressione di un bambino innocente è un delitto. E marchiare tutto questo come «basato sulla scienza» e «supportato da prove» è un falso in atto pubblico. Al contempo, esigere che il Patient Protection and Affordable Care Act venga chiamato «Obamacare» come fa l’universo mondo è una misura logica di reazione e contenimento. Certamente il nome formale della legge è il primo, ma il cittadino ha il diritto di capire sempre bene la materia in oggetto.
Uguale il voler chiamare «scambi» i «mercati»: non cambia nulla, ma siccome va di moda sparare indebitamente a zero contro “il mercato” e “i ricchi”, bisogna che il pubblico sia servito, non irretito. La lista della “parole proibite” sarà insomma un po’ rozza, ma non viola la legge e non inganna gli americani. Forse che il consenso informato e la corretta informazione al contrante non siano princìpi di civiltà? La stampa malevola e maliziosa non continua forse a chiamare “Muslim ban” quello che non lo è e non lo è mai stato? Forse che in Italia non si stia cercando di mettere il bavaglio a chi non accetta la bugia del linguaggio LGBT e ai giornalisti che dovrebbero scrivere articoli asessuati?
Si dirà però che così facendo l’Amministrazione Trump stia imbavagliando la libertà di espressione (in violazione della Costituzione) e inibendo la libertà di ricerca. Frottole. La stampa continuerà infatti imperterrita a usare il linguaggio che vuole, anche perché il “Words ban” non la coinvolge minimamente, e i ricercatori pure: i destinatari delle “parole bandite” sono infatti gli analisti politici pagati dallo Stato per prevedere spese ed entrate di bilancio mediante studi attinenti l’economia aziendale e la ragioneria, ma che spesso scambiano invece se stessi per opinion maker con licenza poetica. Ancora una volta, dov’è lo scandalo che suscita tanto clamore? Non c’è: c’è solo il solito fumo negli occhi, il “mostro Trump” sbattuto in prima pagina per coprire la verità.
Tenendo presente che l’HSS è sempre stato lo strumento di un radicalismo anti-uomo peggiore di una mina, e questo specialmente durante il doppio mandato presidenziale di Obama, la prima verità anestetizzata da chi muove solo aria agitando la lista delle “parole proibite” è lo scardinamento degli abusi accumulatisi negli scorsi decenni che oggi l’Amministrazione Trump ha operato mettendo nero su bianco, nel nuovo regolamento del Ministero, l’intangibilità della vita umana dal concepimento alla morte naturale. La seconda è che il 15 dicembre un giudice, al solito, stavolta Wendy Beetlestone del Distretto orientale della Pennsylvania, a cui si sono legati o stanno per farlo altri giudici di California, Delaware, Maryland, New York e Virginia, ha bloccato l’applicazione dell’ordinanza presidenziale con cui il 6 ottobre Trump ha svuotato l’“Obamacare” della sua norma più immorale, mettendo fine all’obbligo di passare preparati contraccettivi e abortivi nelle polizze assicurative accese per i propri impiegati da ordini religiosi, istituzioni quali università e ospedali rette da loro o da enti d’ispirazione religiosa, organizzazioni di ben preciso orientamento quali i comitati promotori delle marce per la vita e aziende che sollevino eccezioni morali, ma pure da chi obietti per ragioni etiche “laiche”.
E non è finita. L’inchiesta sul cosiddetto “Russiagate” (tutto sempre da dimostrare, nei fatti, nei capi di accusa, negli accusati) ha appena registrato un’altra punta che però, essendo favorevole a Trump, è stata relegata in ultima pagina. Il procuratore speciale dell’FBI, Robert S. Mueller III, avrebbe ottenuto e-mail riservate in maniera illegale. La denuncia è contenuta in una lettera datata 16 dicembre e inviata alle commissioni competenti del Congresso federale da Kory Langhofer, avvocato dell’organizzazione Trump for America (TfA) che si è occupata della transizione dall’Amministrazione Obama all’Amministrazione Trump fra la data di elezioni di quest’ultimo, l’8 novembre 2016, e la data del suo insediamento ufficiale, il 20 gennaio 2017. Ripeto: un’accusa formale stilata da un avvocato in una lettera al Congresso, altro che le fonti anonime di The Washington Post. All’epoca, il TfA si mosse utilizzando, come si deve fare, le strutture statali, tra cui il servizio di hosting per e-mail General Services Administration (GSA). Ebbene, alcuni funzionari del GSA avrebbero passato a Mueller anche materiali privati come è ingiusto fare.
Al medesimo tentativo di addomesticare l’informazione è infine da ascrivere lo spazio minimo dedicato dalla stampa all’atto conclusivo dell’approvazione dell’enorme taglio delle tasse voluto da Trump. La Camera federale ha approvato la proposta il 16 novembre; il 2 dicembre lo ha fatto anche il Senato; ma soprattutto, venerdì 15 (davvero un giorno fatale), la commissione bicamerale che si occupa di risolvere la conflittualità fra i testi legislativi approvati dai due rami del Congresso ha approvato la versione finale della legge. Secondo Grover Norquist, presidente dell’influente Americans for Tax Reform di Washington, intervistato dall’emittente radiofonica di New York AM 970 The Answer, ne deriverà una massiccia crescita economica che favorirà il Partito Repubblicano nelle elezioni “di medio termine” del 6 novembre 2018. Una valutazione più che importante dopo la sconfitta subita dal partito in Alabama. Adesso alla nuova legge fiscale manca solo la firma del presidente. E ai media sempre quella declinazione professionale della morale che si chiama deontologia.
Marco Respinti