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La speranza di Giovanni Drogo

15 Settembre 2021 - Autore: Lucia Menichelli

I giusti risorgeranno con la loro bellezza


di Lucia Menichelli

Il famoso romanzo Il deserto dei tartari di Dino Buzzati racconta la vita del soldato Giovanni Drogo, trascorsa nell’inutile attesa di un attacco nemico nella guarnigione dove viene assegnato, la fortezza Bastiani. A tratti onirica, ma anche realistica, la vicenda rappresenta la metafora del tempo passato in attesa di un evento che dia un senso all’esistenza. La speranza che il protagonista coltiva fino alla fine si realizza solo troppo tardi, quando già ormai il soldato è vecchio e malato: il nemico arriva, ma lui deve lasciare la fortezza suo malgrado e, al chiuso della camera di una locanda, solo e abbandonato, muore. Seppure cruda e disincantata, la trama proprio nella parte finale, svela il senso di tutta la vicenda: all’ultimo capitolo l’autore riserva una splendida narrazione di come Giovanni Drogo arrivi ad affrontare coraggiosamente la battaglia veramente importante e decisiva, quella con la morte, che lui ora riesce a intendere come «la sua grande occasione». La battaglia si combatte non sul campo, con la promessa di una gloria vana, ma senza che nessuno lo guardi e lo chiami eroe; ma proprio per questo ne «vale la pena (…) Questo, Giovanni diceva a se stesso – una specie di preghiera…».

Buzzati questa morte la definisce difficile, non come quella sul campo di battaglia che può essere invece malinconica, triste o addirittura bella. La bella morte, quella «all’aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, tra trionfali echi di tromba»; quella anche di un suo compagno caduto durante una missione nella neve, «con molta eleganza (…)», col corpo intatto, quindi per questo privilegiato, per aver potuto conservare il suo bell’aspetto.

Questo destino non è riservato a Drogo, che muore «con quel misero corpo, le ossa sporgenti, la pelle biancastra e flaccida», ma lui stesso si chiede: «chissà che, passata la nera soglia, anche lui Drogo non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perché bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza».

Buzzati, consapevolmente o meno, sta indicando ai lettori il superamento dell’ideale tutto pagano della “bella morte”, che ritroviamo in Omero e in tutta la letteratura classica: siccome la morte colpisce solo il corpo, è fondamentale, per chi si vuole definire eroe, varcare questa soglia nel pieno delle forze e con il corpo intatto, da conservare anche nell’aldilà. La giovinezza e la bellezza del guerriero riflettono sul suo stesso corpo lo splendore della gloria e,cosi cristallizzate, restano immutabili in eterno. Per questo il corpo non deve essere deturpato: il cadavere profanato, reso irriconoscibile, priverebbe l’eroe della propria identità e quindi dell’immortalità che gli viene garantita anche dalla poesia epica, eternatrice del suo valore.

Ma questa idea col Cristianesimo, ormai, non ha più motivo di esistere: grazie al sacrificio di Gesù sulla croce, la morte non è più annientamento. Come si è potuta accettare la deturpazione del corpo di Gesù, che poi è risorto per riacquistare la sua bellezza, così i corpi di tutti i buoni, di tutti i santi risorgeranno nella loro bellezza.

Mercoledì, 15 settembre 2021


 

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