Da “Libero” del 21 dicembre 2016. Foto da Panorama
Quando in Germania sorgono dubbi sull’identità dell’ attentatore significa che non ci si può nemmeno azzardare a nominarlo. È il codice vigente di autodisciplina, in pratica di autocensura, dei giornalisti a stabilirlo.
Guai a fornire le generalità dell’individuo coinvolto nell’attentato o nel reclutamento di jihadisti per non scatenare reazioni xenofobe. Se finisce sotto processo, se ne mettono le iniziali e magari anche la sua fotografia. Ma va rispettata la sua privacy. E chi viola le disposizioni, adottate dal Consiglio tedesco della stampa, rischia di incorrere in pesanti sanzioni disciplinari.
Editori, direttori e semplici cronisti ci stanno ben attenti, quindi. Anzi, vanno oltre e si guardano bene dal fornire qualsiasi tipo di informazioni sull’autore del crimine. Finché non lo condannano in via definitiva, ovviamente, rimane «presunto» per evitare querele in caso di assoluzione in un ulteriore grado di giudizio. Ma anche dopo che è stato riconosciuto colpevole, a meno che vi sia un rilevante interesse pubblico nella notizia, ci si deve astenere dal renderlo riconoscibile «nell’interesse della risocializzazione», come spiega il comma 3 della sezione 8, punto 1 delle linee guida emesse nel 1973 e aggiornate l’ultima volta nel 2013. Qui da noi si utilizzano formule come il recupero del reo e il diritto all’oblio, ma in fondo la sostanza è la stessa.
Ma se si tratta di un musulmano, la prudenza non è mai troppa. Per non essere accusata di islamofobia, «la stampa si asterrà dal vituperio contro le convinzioni religiose, politiche o morali», recita la sezione 10 del succitato codice. In pratica, è vietato dire che i fatti nascono dalle idee, che vi sono retroterra dottrinali che conducono naturalmente a impegnarsi nella guerra santa sulla via di Allah, che alcune pratiche sono patrimonio esclusivo di una determinata cultura. Si potrebbe derogare alla regola, in forza del comma successivo: «Non è permesso riferire l’appartenenza religiosa, etnica e di altra minoranza del sospetto a meno che questa informazione possa essere una circostanza di rilievo per la comprensione dell’ incidente da parte del lettore». Eppure, «va considerato che tali riferimenti potrebbero generare pregiudizi contro le minoranze».
Scrivere diventa così un percorso a ostacoli. Allora, per evitare l’ordalìa, che lascerebbe comunque esausti dopo il superamento di tali e tanti esami pratici della cosiddetta etica dell’ informazione, si finisce per tacere anche i particolari più rilevanti.
È così che, nell’immediatezza degli attacchi, radio, tv e giornali utiizzano ormai alcuni cliché: nessuno deve osare arrivare a conclusioni su chi sia il responsabile e nemmeno sull’ipotesi che si tratti di attentato terroristico. Ormai è un copione già scritto, basta attingervi e la copertura dell’ evento è assicurata, senza incidenti. Nelle prime due ore successive, è sufficiente adombrare la presenza di estremisti di destra. E, se i testimoni indicano che chi uccideva urlava Allah Akhbar, i terroristi vanno descritti come giovani alienati con problemi psichiatrici. Solo dopo la rivendicazione da parte di qualche sigla islamica si procederà a scagionare completamente la religione. Semmai, si potrà instillare il timore che i musulmani temono ritorsioni dopo l’attacco e che i musulmani pacifici sono le vere vittime. Chi lo ha compiuto, quindi, ha deviato una religione di pace, secondo l’ideologia corrente nelle redazioni. Tutto politicamente correttissimo, a scapito della verità dei fatti.
Andrea Morigi