di Marco Respinti, pubbicato su “la bianca torre di Ecthelion” del 28 luyglio 2018. Foto di redazione
Il mondo non sarà più quello di prima. Certamente non sarà più quello che è stato negli otto anni della presidenza di Barack Obama. Ciò che i tre giorni della “Ministerial to Advance Religious Freedom”, chiusasi giovedì 26 a Washington, suggellano è decisamente questo. Davanti a centinaia fra capi di Stato e di governo, ministri, esperti internazionali e scampati alla persecuzione religiosa raggruppati nelle 80 delegazioni che sono intervenute al primo incontro internazionale a difesa della libertà di credere e di vivere pubblicamente la fede, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo e il vicepresidente del Paese più importante del mondo, Mike Pence, hanno formalmente impegnato gli Stati Uniti, a nome e su mandato del presidente Donald J. Trump, a imprimere una svolta decisiva al nostro tempo.
«La mia fede personale ha per me la massima importanza», ha esordito il Segretario Pompeo solo dopo avere messo davanti a tutto il vicepresidente Pence: «So personalmente che è un uomo di fede profonda e la sua dedizione alla difesa alla libertà religiosa non ha eguali». Poi Pompeo ha continuato: «In quanto cittadino degli Stati Uniti d’America, godo della benedizione del diritto di vivere apertamente ciò in cui credo senza paura di persecuzioni o di rappresaglie da parte del mio governo. Voglio che tutti godano di questa stessa benedizione». Una benedizione per introdurre il concetto chiave: quello dell’Amministrazione Trump è un «[…] impegno irremovibile» a difendere la libertà religiosa. Ma c’è molto di più. L’idea di organizzare la prima convention mondiale attorno a questo ideale non è la decisione di un singolo, pur potente o autorevole, quindi contingente e momentanea, ma «è radicata nella storia degli Stati Uniti».
Il punto all’ordine del giorno è netto. Gli Stati Uniti vogliono ricoprire un ruolo preciso nello scenario internazionale, e quel ruolo è la difesa e la promozione del primo dei diritti umani: la libertà di ognuno di credere in Dio e di vivere di conseguenza, modellando su questo principio primo le proprie scelte di vita, i propri impegni, la propria visione del mondo, le proprie iniziative sociali, economiche, politiche, culturali ed educative. Non esiste alcun potere, privato o pubblico, non esiste alcuno Stato o regime che possa limitare, conculcare o negare questo diritto imprescindibile. E qualora vi fosse, sarebbe uno Stato che viola il proprio mandato, che viola la legge, che viola gli uomini.
Se il ruolo che gli Stati Uniti vogliono avere nel mondo è questo, e se questo non è semplicemente l’orientamento di una particolare Amministrazione politica, come dice Pompeo, significa allora che caso mai un’altra Amministrazione statunitense di diverso orientamento dovesse fare altrimenti, essa semplicemente tradirebbe l’essere americani. Tradirebbe sé stessa, il Paese e la sua storia.
Il motivo, infatti, per cui gli Stati Uniti mettono la libertà religiosa al primo posto della propria politica estera è semplicissimo: la libertà religiosa «[…] non è un diritto esclusivo degli statunitensi», bensì «un diritto universale dato da Dio a tutto il genere umano». Dio torna insomma in politica; torna a essere la pietra angolare dell’azione pubblica. Verranno i momenti di magra, verranno le dimenticanze e forse pure i voltafaccia. Ma questo è un momento senza precedenti. L’anno zero “costantiniano” dell’età, comunque gli storici la chiameranno, che viene dopo la postmodernità relativista, la quale ha travolto la modernità ideologica, la quale a propria volta ha preteso di cancellare le stagioni in cui l’uomo ha provato a prendere sul serio la fede. I media non lo hanno ancora capito.
Intervenendo dopo il Segretario Pompeo, il vicepresidente Pence ha vidimato e confermato ufficialmente questo impegno, «giacché, oggi, tragicamente, uno scioccante 83% della popolazione mondiale vive in Paesi dove la libertà religiosa è minacciata o addirittura bandita».
Pence ha elencato alcune situazioni gravi partendo però dal Nicaragua, dove il marxismo acre e aspro del governo sandinista ha ripreso nuovo vigore persecutorio e «il governo di Daniel Ortega sta praticamente facendo la guerra alla Chiesa Cattolica» con l’impiego di tagliagole che con machete e armi pesanti assaltano parrocchie e aggrediscono vescovi.
Poi ha posto l’accento sulla Cina, un Paese che sta letteralmente tornado al maoismo. C’è un collegamento netto e voluto fra quanto detto in conclusione giovedì da Pence e quanto detto martedì in apertura dall’ambasciatore statunitense per la libertà religiosa nel mondo, Sam Brownback: quanto avviene in Cina, nei famigerati “campi di rieducazione” dove finiscono migliaia e migliaia di persone di ogni fede colpevoli soltanto di avere una fede religiosa è una «situazione scioccante».
E poi ci sono la Corea del Nord, che nella «persecuzione dei cristiani […] non ha rivali sulla Terra», la Russia, l’Iran, l’ISIS (le cui atrocità non sono finite), ma pure la Turchia dove il pastore presbiteriano Andrew C. Brunson langue in carcere dal 2016, pur essendo un cittadino statunitense, con la falsa accusa di avere preso parte al tentativo di colpo di Stato.
Ma, dopo avere pronunciato parole importanti, l’Amministrazione americana è passata ai fatti. Non ci si può infatti limitare a denunciare senza fare nulla. A questo scopo Pompeo ha presentato la “Potomac Declaration” (dal nome del fiume che scorre a Washington) che urge i governi del mondo a porre la difesa della libertà religiosa senza “se” e senza “ma” in cima alle proprie priorità politiche, e Pence ha dato notizia della costituzione di un nuovo Fund per la libertà religiosa nel mondo. Con la Dichiarazione americana molti regimi ci si faranno aria, ma resta nero su bianco. E verrà come metro di giudizio per distinguere gli amici dai nemici. Così nettamente non era mai successo prima.
Marco Respinti