Da “La Bianca Torre di Echtelion” del 16 luglio 2017. Foto da Radio24
Hanno in comune la data di morte. 1915. Come se di botto la storia si fosse interrotta inghiottendo un popolo intero nel nulla. Scrittori, poeti, intellettuali, il genocidio dei cristiani armeni perpetrato dai Giovani Turchi più di un secolo fa cominciò falcidiando l’élite culturale: il poeta Daniel Varujan, forse il più grande, a cui fanno eco Siamantò, Rupen Sevag e tanti altri meno famosi ma non meno degni.
Nemmeno il buio più nero riesce però a cancellare tutto e così anche di quelle voci disperse resta la memoria in pagine ritrovate e ora riunite nell’antologia Benedici questa croce di spighe…, curata da Suren Gregorio Zovighian e padre Hamazasp Kechichian, che l’editore milanese Ares pubblica con un invito alla lettura firmato dalla nota scrittrice Antonia Arslan, scrittrice tra l’altro de La masseria delle allodole (Rizzoli), la quale rievoca: «La retata dei capi della comunità armena nella capitale Costantinopoli avvenne inaspettata in pochi giorni, a partire dal 24 aprile 1915 (dichiarato poi “Giorno della Memoria” del genocidio armeno). Una mossa programmata per decapitare la classe dirigente e attuata con fredda premeditazione. Agli arrestati e alle loro famiglie si parlò solo di una breve detenzione, al massimo di un esilio. Invece fu il massacro».
Scrittori e poeti: che paura ne avevano i turchi?
«Non fu la paura a spingerli, ma la volontà di eliminare uno dei popoli autoctoni dell’Asia Minore. Eliminando gli armeni dalla loro sede storica, si ristabiliva il contatto territoriale dei turchi con le altre popolazioni turaniche dell’Asia Centrale, nel sogno di un nuovo impero volto a Oriente. Nel progetto genocidario dei Giovani Turchi (sul quale in anni recenti sono uscite ricerche molto importanti effettuate da giovani studiosi turchi) rientrarono anche assiro-siriaci e greci di cui infatti oggi in Turchia non esiste quasi più traccia».
Nel 301 l’Armenia divenne il primo Stato cristiano del mondo…
«Da questa antologia emerge come un tessuto di base, una grande rete di tradizioni e convincimenti, quell’adesione al cristianesimo come collante d’identità che non si può negare né togliere, e che connota il popolo armeno da sempre. Si dice che in ogni luogo del vasto mondo dov’è giunta la diaspora armena, casa, chiesa e scuola sono state costruite assieme».
Quali sono le peculiarità di questa raccolta?
«Prima di tutto, i racconti. La scoperta di un mondo variopinto e vivace, quello delle popolazioni cristiane che vivevano all’interno di un Paese musulmano: le interazioni, i modi di sopravvivenza, le storie del quotidiano, le sofferenze, le gioie. Non i grandi proclami, ma la vita di tutti i giorni in un’epoca precisa e poco conosciuta, l’interno dell’impero ottomano nell’epoca della sua decadenza. Poi, la poesia, fra cui spicca quella di Varujan, che è uno dei più importanti poeti dell’epoca, penalizzato purtroppo dal fatto di scrivere in una lingua minoritaria».
Un testo rappresentativo su tutti?
«Un racconto tolstoiano classico: Geiran di Krikor Zohrab. Ma mi conceda di segnalare anche una poesia, quella che dà il titolo all’antologia: Croce di spighe (Sull’altare della Vergine) di Varujan, una ballata piena di luce, di sole, di amore».
La cultura armena è stata un ponte fra Occidente e Oriente. Cosa resta di quell’eredità?
«Macerie. La cultura – e la lingua – dell’Armenia occidentale (quella anatolica) sono stati distrutti: gl’intellettuali sopravvissuti hanno finito per ripiegarsi sulla tragedia immane che ha cancellato non solo le vite di circa un milione e mezzo di persone (su circa 2 che erano gli armeni in Turchia), ma tradizione e cultura: un deposito immenso di letteratura antica e moderna, e poi città e villaggi, case, chiese, collegi, fabbriche, cimiteri, i famosi katchkar, le croci di pietra intagliate, disseminati su tutto il territorio. L’armeno occidentale non si parla quasi più nella diaspora. Per quanto riguarda l’Armenia oggi indipendente, non scordiamo che è quella piccola parte dell’antico Paese che stava sotto gli zar di Russia: con una lingua, l’armeno orientale, abbastanza differente».
E i giovani scrittori armeni contemporanei? Cosa c’è in loro della generazione soppressa?
«Un senso di perdita e di privazione, un’acuta nostalgia per qualcosa che avrebbe potuto esistere e non è stato. Come la sensazione di una patria perduta per sempre. Noi armeni della diaspora non conosciamo nessuno di quegli scrittori. Per questo l’antologia costituisce per noi una conquista d’identità e per tutti la scoperta di una letteratura piena di promesse ma ridotta al silenzio».
Marco Respinti