di Maurizio Milano
Per Papa Francesco, «il lavoro umano è partecipazione alla creazione». È questo un altro punto qualificante del discorso che il Pontefice ha rivolto sabato 27 maggio al mondo del lavoro nello Stabilimento Ilva di Genova, dopo avere sottolineato la centralità dell’imprenditore nella realizzazione di una economia buona.
Il lavoro è infatti la vocazione umana fondamentale perché Dio creatore ha chiamato gli uomini a collaborare al suo Progetto, a divenire “sub-creatori” all’interno del suo Piano provvidenziale.
In tale prospettiva, il Santo Padre ricorda quindi che «la mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto, molto di più. Lavorando noi diventiamo più persona, la nostra umanità fiorisce, i giovani diventano adulti soltanto lavorando. La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori».
E ancora: «gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale».
Gli elevati tassi di disoccupazione, in specie giovanile, rappresentano quindi uno dei drammi dei nostri tempi. Il Papa definisce la situazione «[…] un’ipoteca sul futuro. Perché questi giovani crescono senza dignità».
Non bisogna però cedere alla tentazione del pessimismo o alla paura di fronte alle inevitabili trasformazioni tecnologiche, abbracciando una sorta di “luddismo” di ritorno.
Il Santo Padre ricorda infatti che «bisogna […] guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti […] un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema».
Papa Francesco è consapevole del fatto che «il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro. Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia; ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35 o 40 anni, dare un assegno dello Stato, e arràngiati. “Ma, ho per mangiare?”. Sì. “Ho per mandare avanti la mia famiglia, con questo assegno?” Sì. “Ho dignità?” No! Perché? Perché non ho lavoro. Il lavoro di oggi sarà diverso. Senza lavoro, si può sopravvivere; ma per vivere, occorre il lavoro. La scelta è fra il sopravvivere e il vivere. E ci vuole il lavoro per tutti».
Se l’uomo è “vocato al lavoro”, l’impossibilità di trovare un lavoro adeguato ai propri talenti non è quindi un semplice problema di “reddito” ma può far precipitare la persona in una spirale depressiva e di isolamento, di progressiva perdita di fiducia in sé e nelle proprie capacità. Il Santo Padre ci ricorda che «chi perde il lavoro e non riesce a trovare un altro buon lavoro, sente che perde la dignità, come perde la dignità chi è costretto per necessità ad accettare lavori cattivi e sbagliati».
Inoltre, «[…] per poter fare festa dobbiamo lavorare. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati, non è mai veramente domenica e le feste diventano a volte giorni di tristezza perché manca il lavoro del lunedì. Per celebrare la festa, è necessario poter celebrare il lavoro. L’uno scandisce il tempo e il ritmo dell’altra. Vanno insieme».
Un tema legato a filo doppio al lavoro è quello del consumo, divenuto «[…] un idolo del nostro tempo […], il centro della nostra società […]. Grandi negozi, aperti 24 ore ogni giorno, tutti i giorni, nuovi “templi” che promettono la salvezza, la vita eterna; culti di puro consumo e quindi di puro piacere. È anche questa la radice della crisi del lavoro nella nostra società: il lavoro è fatica, sudore. La Bibbia lo sapeva molto bene e ce lo ricorda. Ma una società edonista, che vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore e quindi non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo: gli idoli non lavorano. Il lavoro è travaglio: sono doglie per poter generare poi gioia per quello che si è generato insieme. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto col lavoro e continueremo a sognare il consumo di puro piacere. Il lavoro è il centro di ogni patto sociale: non è un mezzo per poter consumare, no. È il centro di ogni patto sociale».
L’affievolirsi delle virtù umane e cristiane, della fede e della speranza che da questa deriva, è all’origine di quella perdita di senso e della conseguente “bulimia” del consumo di una società sempre più massa amorfa d’individui, che si sta suicidando anche sul piano demografico. Solo un rinnovamento culturale profondo può creare le condizioni perché possa attecchire una nuova cultura del lavoro, del risparmio e dell’investimento, centrata sulla famiglia e non sull’individuo atomizzato. Orientata con fiducia al futuro, cioè, e non ripiegata con triste egoismo su se stessa.