Da “La nuova Bussola Quotidiana” del 20 dicembre 2016. Foto da Magzine
Quella che l’8 novembre ha portato Donald J. Trump alla Casa Bianca è stata una reazione. Strana, sgangherata fin che si vuole, ma reale. Una reazione a otto anni di rivoluzione, talvolta sorniona talaltra smaccata, ma sempre aggressiva con cui l’Amministrazione retta da Barack Obama ha cercato di stravolgere l’homo americanus. Dopo otto lunghi anni di questa medicina, la sicumera del mondo obamiano dava per oramai raggiunta la normalizzazione del Paese. Per questo praticamente nessuno si aspettava lo tsunami. Sorpreso, incarognito per la sconfitta imprevista, incapace di spiegare l’accaduto anzitutto a sé stesso, o forse solo di accettarlo, il mondo liberal si abbarbica dunque adesso ai nominalismi usati come clave. Soprattutto due, “populismo” e “isolazionismo”.
Il secondo evoca lo spirito inquieto dell’egoismo, ma quando otto anni fa alla Casa Bianca fu eletto Obama si parlò d’isolazionismo anche per lui. Si trattava di una equazione. Siccome i presidenti di destra sono guerrafondai, il nuovo presidente di sinistra doveva essere il contrario. A Obama il Premio Nobel per la pace fu dato nel 2009 precisamente su questo assunto ideologico senza che avesse fatto alcunché per meritarlo.
Ma la storia degli Stati Uniti racconta il contrario. Il coinvolgimento nella Guerra del Vietnam (1955-1975) fu opera dei Democratici John F. Kennedy (1917-1963) e Lyndon B. Johnson (1908-1973), e soprattutto lo fu il modo maldestro in cui la cosa avvenne, mentre a chiudere la partita fu il Repubblicano Richard M. Nixon (1913-1994) dopo l’inevitabile escalation (una volta in guerra, le guerre bisogna vincerle); il modo altrettanto maldestro con cui lo fece, è opera del suo Segretario di Stato, Henry Kissinger, non esattamente un conservatore. Ugualmente, nell’inutile, anzi dannosa guerra in Libia del 2011 gli Stati Uniti ce li hanno portati Obama e il suo segretario di Stato Hillary Clinton. E le guerre in Afghanistan e Iraq? Bisogna dare atto al presidente Repubblicano George W. Bush Jr. di averle volute solo come operazioni antiterrorismo di sicurezza nazionale.
Ora, negli Stati Uniti l’“isolazionismo” è un fenomeno culturale e storico preciso. Si chiamò così l’opposizione alla Prima guerra mondiale (1914-1918) che mondiale lo divenne proprio quando il Democratico Woodrow Wilson (1856-1924) vi trascinò gli Stati Uniti. Nel 1919 fu assegnato pure a lui il Nobel per la Pace, ma in quello che sino ad allora era stato solo un conflitto europeo Wilson entrò, senz’alcun interesse nazionale americano, per mettere fine all’Impero Austro-Ungarico, il “nemico reazionario”. L’isolazionismo tornò alla vigila della Seconda guerra mondiale (1939-1945) quando un altro presidente Democratico, Franklin D. Roosevelt (1882-1945), mascherò la propria intenzione soggettiva globalista con la necessità oggettiva di fermare la minaccia totale di Adolf Hitler (1889-1945). Fuori da questi precisi contesti storici, non esiste una “filosofia dell’isolazionismo”. Esistono invece indirizzi politico-culturali progressisti o conservatori, esiste cioè il colonialismo ideologico opposto all’interesse nazionale.
Obama, per esempio, ha piegato l’impianto militare voluto da Bush per la difesa nazionale ai suoi sogni coloniali. Lo illustra perfettamente Pratap Chatterjee su The Nation, settimanale della Sinistra liberal critica del sinistrismo liberal di Obama che, fatta la necessaria tara all’insopportabile faziosità, sciorina dossier imbarazzanti. Anzitutto i droni, quei velivoli senza pilota che spersonalizzano la morte, sbianchettano le responsabilità personali e rimuovere la coscienza dalla guerra, ma non riescono a eliminare l’errore umano. E siccome la precisione non è di questo mondo, nemmeno tecnologico, le loro vittime innocenti sono un esercito. Il governo ne ammette tra le 64 e le 116 in 473 raid in Libia, Pakistan, Somalia e Yemen tra gennaio 2009 e fine 2015, ma l’autorevole Bureau of Investigative Journalism di Londra parla invece di 800. Il che porta al secondo punto: a chi fanno capo gli errori militari? Terzo (per certi versi un corollario), con quale criterio la Casa Bianca ha autorizzato uccisioni mirate? Secondo quali interessi? Quarto, perché l’enorme apparato spionistico con cui si sono sorvegliati persino gli alleati? Con quale diritto? Si può non essere dei fan dell’amoralità e della strumentalizzazione di Edward Snowden e tantomeno di Julian Assange, ma il problema, enorme, resta. Quinto, c’è un ipotizzabile set di “leggi segrete” che The Nation immagina derivare da quel “diritto parallelo” fatto di memorandum, appunti e notifiche che sono state il semaforo verde delle operazioni segrete, border-line, “private”.
L’Amministrazione Obama si è sentita autorizzata ad agire oltre la legge dalla bontà delle proprie intenzioni e, paternalisticamente, oltre l’“incapacità” del pubblico di “comprendere”, ma i governi che agiscono nell’ombra esautorando le istituzioni rappresentative sono le tirannie. Oggi i critici isterici di Trump agitano terroristicamente fuori contesto e senza motivazione lo spettro dei “codici nucleari” in mano al mattatore di The Apprentice, ma il mondo del primo presidente nero della storia americana non è stato affatto sicuro.
E questa è solo l’ennesima delle ipocrisie liberal. L’altra riguarda l’immigrazione clandestina. Che il muro di separazione fra Messico e Stati Uniti lo abbia iniziato Bill Clinton nel 1994 si è finalmente riusciti a ricordarlo al mondo, ma adesso bisogna ricordare pure che tra il 2009 e il 2015 l’Amministrazione Obama ha “deportato” più di 2 milioni e mezzo d’immigrati illegali, record assoluto per qualsiasi presidente della storia americana.
Marco Respinti