Da “La bianca torre di Echtelion” del 22 agosto 2017. Foto da articolo
Se non fosse stato versato del sangue, la vicenda della rimozione della statua del generale confederato Robert E. Lee (1807-1870), che il 12 agosto a Charlottesville, in Virginia, ha scatenato le ire dei suprematisti bianchi e le contro-ire degli antirazzisti liberal, farebbe scappare da ridere. Perché del razzismo Lee è proprio l’emblema sbagliato.
Consigliere militare del primo e unico presidente degli Stati Confederati d’America, Jefferson Davis (1808-1889), il generale Lee fu il principale condottiero militare “sudista”: per oltre tre anni capitanò l’Armata della Virginia Settentrionale ‒ i migliori sul piano bellico ‒ e verso la fine della Guerra di secessione (1861-1865) fu nominato comandante in capo di tutto l’esercito confederato. Al termine del conflitto, si adoperò affinché il governo federale concedesse l’amnistia accettando la sconfitta militare e politica pur senza rinunciare alla propria identità culturale. La cosa si arenò per un mero pasticcio burocratico, ma Lee non lo sapeva e interpretò il silenzio del governo come un diniego. Ciononostante, diversi altri ex confederati ne seguirono l’esempio. Fu così che nel 1975 il presidente Gerald Ford (1913-2006) perdonò i ribelli mentre il Congresso federale restituiva loro retroattivamente la piena cittadinanza dopo che, nel 1970, un impiegato degli Archivi Nazionali di Washington (dove si conservano i documenti originali del Paese) aveva rinvenuto un loro disperso impegno di fedeltà che permetteva di superare le clausole contro chi avesse mai preso parte a insurrezioni o tradimenti sancita dal XIV emendamento alla Costituzione federale ratificato nel 1868. Analogamente, nel 1978 fu reintegrato anche il presidente confederato Jefferson Davis, che era stato incarcerato in condizioni indecenti nel 1865: al presidente (non cattolico) furono vicine solo le suore di Savannah, in Georgia, che gl’inviarono un rosario, e il beato Papa Pio IX (1792-1878), che gli mandò una corona di spine (la intrecciò personalmente) e un proprio ritratto autografato con scritto: «Se qualcuno vuol venire dietro me, prenda la sua croce e mi segua …» (Mt 16, 24).
Ebbene, da Fort Brown, in Texas, dove si trovava per incarichi militari, il 27 dicembre 1856 il generale Lee inviò una lettera alla moglie Mary Anna Randolph Custis (1808-1873) in cui fra l’altro scrive:
«Credo che in quest’epoca illuminata siano ben pochi coloro che non riconoscano che l’istituto della schiavitù è un male morale e politico in qualsiasi Paese. È inutile dilungarsi sui suoi danni. Credo però che sia un male maggiore per i bianchi che per la razza nera, e mentre i miei sentimenti sono fortemente a favore della seconda, le mie simpatie sono più forti per i primi. I neri stanno incommensurabilmente meglio qui che in Africa, moralmente, socialmente e fisicamente. La dolorosa disciplina cui sono sottoposti è necessaria per la loro istruzione complessiva, e io spero che ciò li prepari e li guidi al meglio. Quanto è necessario che questa loro soggezione duri è noto e ordinato da una Provvidenza saggia e clemente. La loro emancipazione verrò prodotta prima dall’influenza dolce e delicata del cristianesimo che non dalle tempeste e dalle burrasche delle polemiche furibonde. Benché lento, quell’influsso è infatti sicuro. La dottrina e i miracoli del nostro Salvatore hanno impiegato quasi duemila anni per convertire solo una piccola parte del genere umano e quanti errori ancora esistono anche nelle nazioni cristiane! Mentre vediamo avviata l’abolizione definitiva della schiavitù umana, aiutandola con le nostre preghiere e tutti i mezzi leciti in nostro potere, dobbiamo lasciarne il corso così come l’esito nelle mani di Colui che vede la fine, di Colui che sceglie di operare attraverso movimenti lenti e per il quale duemila anni sono un giorno solo. Lo sappiano gli abolizionisti, capendo che non hanno né il diritto né il potere di agire se non attraverso strumenti morali e persuasione; e se ciò che vogliono è il bene degli schiavi, allora non debbono provocarne i padroni. Benché infatti possano non approvare il modo in cui alla Provvidenza piace ottenere i propri scopi, l’esito sarò comunque lo stesso: le ragioni che essi accampano per interferire con ciò che non li riguarda diventano sennò poi buone per giustificare qualsiasi tipo d’interferenza con il nostro prossimo nel momento in cui non ne approviamo il comportamento, prossimo che, io temo, persevererà comunque nella propria malvagità. Non è strano che i discendenti di quei padri pellegrini che attraversarono l’Atlantico per preservare la propria libertà di opinione si siano sempre dimostrati intolleranti della libertà spirituale degli altri?»
Oggi la nostra sensibilità è diversa; nessuno scriverebbe più così. Ma dov’è l’arcigno generale Lee emblema del razzismo nazistoide? Quanto a ignoranza, suprematisti bianchi e antirazzisti liberal sono esattamente pari.
Del resto, la “guerra delle statue” ha già toccato un altro vertice del ridicolo. Alcuni consiglieri comunali della capitale federale, Washington, hanno ufficialmente chiesto la rimozione da un aiuola prossima a Judiciary Square della statua dedicata al generale confederato Albert Pike(1809-1891). Statua che però è stata eretta nel 1900 dalla massoneria per celebrare il ruolo di primo piano svolto dal generale “sudista” nella storia del Rito Scozzese Antico e Accettato, non per i suoi meriti bellici. Cosa diranno i liberi muratori quando gli antirazzisti arriveranno davanti al famoso Albert Pike Memorial Temple, la loggia massonica che sorge ai civici 700-724 di Scott Street a Little Rock, in Arkansas, iscritta nel National Register of Historic Places nel 1986?
Marco Respinti