Da La bianca Torre di Ecthelion del 02/01/2018. Foto da articolo
Domani, 3 gennaio, è il 126° anniversario della nascita di J.R.R. Tolkien (1892-1973) e Bompiani, oggi del gruppo Giunti, rimanda finalmente in libreria la traduzione, completamente rifatta, delle sue Lettere 1914-1973 (766 pagine, 24 euro), curate dal biografo tolkieniano Humphrey Carpenter (1946-2005) con l’assistenza di Christopher Tolkien, terzo dei quattro figli dello scrittore e filologo inglese, suo esecutore letterario oggi 94enne. L’edizione inglese risale al 1981, impreziosita nel 1999 con un indice ampliato dai coniugi Christina Scull e Wayne G. Hammond, massimi esperti mondiali di bibliografia tolkieniana, e la nuova versione italiana di Lorenzo Gammarelli, dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani (AIST), restituisce la freschezza e l’incisività dell’originale.
Il Italia, infatti, il testo non ha mai avuto fortuna. Tradotto nel 1990 dalla giornalista Cristina De Grandis per Rusconi con il titolo (arbitrario) La realtà in trasparenza, nel 2000 passò a Bompiani. Riedito per un po’ identico, è poi scomparso assieme alla pletora di errori di cui era appesantito.
Il più clamoroso è quello della lettera al secondogenito Michael (1920-1984), datata 6-8 marzo 1941. Qui un Tolkien dal cuore gravato (la guerra, i molti amici morti, un legendarium intricatissimo da dominare), ma confortato dalla fede cattolica, scrive: «Dall’oscurità della mia vita, cosi frustrata, ti offro l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento». Per un incantesimo di Sauron, la prima traduzione ci ha appioppato l’assurdo plurale «Santissimi Sacramenti», che non esiste: né nel testo né in dottrina, visto che una cosa è l’Eucarestia e un’altra sono i sette sacramenti. Tolkien esortava il figlio a relativizzare guai e paure inginocchiandosi al corpo di Cristo e per decenni noi abbiamo fatto finta di capire quel che non capivamo affatto (anche se quel «terra» andrebbe maiuscolato, essendo il pianeta che abitiamo e non la polvere che calpestiamo: l’inglese earth può invece tollerare anche il minuscolo giacché inconfondibile con ground).
Non da meno è la lettera al suo editore, Rayner Unwin (1925-2000), dell’11 aprile 1953. Tolkien avrebbe scritto un’assurdità come: «Finalmente ho completato la revisione per la stampa – spero fino all’ultimo comma – della parte I» de Il Signore degli Anelli semplicemente perché nessuno si è accorto che in inglese comma significa “virgola”. In un’altra lettera dell’agosto 1967 abbiamo sempre letto che il tempo della mitologia tolkieniana è quello in cui la preghiera degli Uomini non ricorda più l’«Unico Dio, Eru» mentre invece sta scritto proprio il contrario. Insomma, c’è davvero da domandarsi quale Tolkien abbiamo conosciuto. E pensare che la De Grandis, interpellata dal principe dei collezionisti tolkieniani italiani, Oronzo Cilli, nelle pagine della sua colossale e acribica ricerca Tolkien e l’Italia (Il Cerchio, Rimini 2016), confessa il «[…] grande interesse che ho immediatamente provato per le lettere», «perché contengono moltissime spiegazioni di numerosi passaggi dell’epopea tolkieniana». Menomale che Gammarelli ci ha messo mano.
Le lettere di Tolkien sono infatti davvero cruciali. Lo scrittore dedicava a quest’arte di altri tempi gran parte delle proprie giornate, cesellando le frasi e scegliendo con cura le parole come sempre faceva quando armeggiava con carta e penna. Ne esce così uno spaccato prezioso che documenta i suoi processi creativi e la sua mentalità, l’incrollabile fede religiosa e il senso profondo che per lui aveva il mito “germanico”, purtroppo sfigurato. Lo scrive espressamente il 9 giugno 1941 al figlio Michael: «Ho passato la maggior parte della mia vita, da quando avevo la tua età, studiando argomenti germanici (nel senso generale che include l’Inghilterra e la Scandinavia). Nell’ideale “germanico” c’è molta più forza (e verità) di quanto la gente ignorante immagini. Ne fui molto attirato da studente (quando suppongo che Hitler si dilettasse di pitture e non ne aveva ancora sentito parlare), per reazione agli “studi classici”. Si deve capire il lato buono che c’è nelle cose, per comprenderne il vero lato cattivo. Ma nessuno mi chiama per parlare alla radio o per scrivere un commento!».
Un cammeo imperdibile è quel che de Il Signore degli Anelli scrisse ai giornalisti Charlotte e Denis Plimmer del Daily Telegraph l’8 febbraio 1967: «Il progredire della storia termina con quanto di più simile alla restaurazione di un effettivo Sacro Romano Impero con sede a Roma un “nordico” potesse inventare». Indispensabile è poi l’architettura letteraria esposta a fine 1951 al consulente editoriale Milton Waldman (1895-1976), tanto da essere poi riprodotta dal figlio Christopher a partire dalla seconda edizione de Il Silmarillion del 1999, e fondamentale l’ermeneutica teologica spiegata all’amico padre gesuita Robert Murray, ancora vivente a Bournemouth, nel Dorset, un luogo dove Tolkien passò parecchio tempo, in una lettera del 4 novembre 1965. Anno nuovo, insomma, Tolkien vero.
Marco Respinti