Di Andrea Morigi da Libero del 16/04/2019. Foto redazionale
Più che dare i numeri, il capo del Governo di Accordo Nazionale libico Fayez Al Serraj ci ricatta con lo spauracchio degli 800mila profughi in arrivo dalla sponda meridionale del Mediterraneo. Sa bene che a Palazzo Chigi non scopriranno il suo bluff, ma stenderanno tappeti rossi al vicepremier e ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, in visita a Roma.
Al termine dell’incontro con l’inviato dell’Emirato di Doha, il premier Giuseppe Conte fa sapere di aver scartato l’intervento militare in Libia perché «le soluzioni di forza affidate all’uso delle armi non portano mai a soluzioni sostenibile», mentre «il dialogo politico si rivela ancora una volta l’unica opzione perseguibile». Se la Francia ha inviato i suo consiglieri militari per sostenere il generale Khalifa Haftar, a Roma «auspichiamo il ritiro delle forze dell’esercito di liberazione nazionale, Lna». Nessuno scontro in vista, dunque, nemmeno di fronte alla minaccia diretta ai nostri interessi petroliferi laggiù. Inshallah.
ARRIVANO I NOSTRI
O, meglio, siamo in attesa che arrivino i nostri, cioè la portaerei statunitense Abraham Lincoln, da ieri al largo di Palma di Maiorca nelle Isole Baleari. Può trasportare 6mila uomini, senza contare che non solo trasporta 90 fra aerei ed elicotteri, ma è un Carrier Strike Group, cioè viaggia con una flotta formata dal Carrier Air Wing 7, dall’incrociatore lanciamissili classe Ticonderoga Uss Leyte Gulf e dal cacciatorpediniere del Destroyer Squadron 2, oltre che da un armamento che comprende i missili Tomahawk.
GLI SCHIERAMENTI
È David Satterfield, consigliere speciale del dipartimento di Stato americano per il Medio Oriente, a spiegare il senso del dispiegamento di forze: «Non crediamo che il coinvolgimento russo in questo conflitto abbia una finalità utile. È un’ingerenza esterna che speriamo si concluda il più rapidamente possibile. È un coinvolgimento opportunistico, cerca di capitalizzare su aree grigie, aree di conflitto ed è davvero poco utile». Washington deve tener conto degli schieramenti: la Turchia, membro della Nato, sostiene Al Serraj così come fa il Qatar, dove gli Usa hanno una base aerea, ma la Francia appoggia Haftar, insieme alla Russia, all’Egitto e all’Arabia Saudita. Ma la loro semplice presenza a poche miglia marine da Tripoli ha già cambiato radicalmente lo scenario bellico.
Quanto alla Penisola, nonostante le recenti distanze a proposito della partnership con la Cina sulla Via della Seta, gli americani sono «estremamente consapevoli delle preoccupazioni speciali che l’Italia ha a causa della sua vicinanza al litorale libico. Rispettiamo tutto questo», prosegue Satterfield e «sappiamo che l’Italia vuole una soluzione duratura, tale da garantire che la sicurezza in Libia e lungo i confini della stessa Libia sia stabilita e mantenuta».
Magari, in cambio chiederanno uno schieramento di truppe tricolori in Siria, per sostituire quelle a stelle e strisce in partenza, dopo la sconfitta dello Stato islamico. Del resto la nostra Costituzione ci consente di fare peacekeeping, ma ci impedisce di entrare in guerra senza il preventivo utilizzo di eufemismi.
Se intervengono gli Stati Uniti, la presenza italiana
diventa superflua e Roma può tornare a essere il punto di riferimento
neutrale per ricomporre la frattura fra la Tripolitania e la Cirenaica.
Così evitiamo anche possibili rappresaglie sul territorio italiano sia
dall’una che dall’altra delle parti in conflitto. Meglio non rischiare
che ci mandino un terrorista imbottito di esplosivo su un barcone.
Naturalmente
anche il vicepremier Luigi Di Maio e il ministro della Difesa
Elisabetta Trenta si adattano alla linea dell’equilibrismo a oltranza.
Il primo, da Dubai, assicura: «Non permetteremo mai che 800mila migranti arrivino in Italia». Poi mette le mani avanti e perora «una politica di redistribuzione dei migranti che deve valere sempre e una politica di cooperazione» a livello europeo. Non si prendono nemmeno la briga di confrontare le cifre sparate da Tripoli con quelle ufficiali dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari Nazioni Unite, che indicano 18mila sfollati libici a causa degli scontri intorno alla capitale e 3mila migranti «intrappolati» nei centri di detenzione e bisognosi di assistenza umanitaria.
AIUTI A CASA NOSTRA
Sarebbe più che opportuno mandare loro aiuti, visto fra l’altro che nessuno arriverebbe prima degli italiani. Macché. La Trenta invece pensa a predisporre la macchina della solidarietà sulle nostre coste. «Bisogna lavorare su una soluzione alternativa alla chiusura dei porti», spiega su Radio Capital, e intanto ne approfitta per prendere le distanze dal vicepremier Matteo Salvini: «Quelli che dicono “attaccate perché altrimenti arrivano i migranti” non hanno capito che se si dovesse andare a un’altra guerra non avremmo migranti ma rifugiati, e i rifugiati si accolgono».
Non sono mica gli unici a prendere per oro colato tutte la balle che arrivano sui giornali. Il portavoce dell’Esercito Nazionale Libico, il generale Ahmed Al Mesmari, prova a spiegare che, dietro le notizie trionfalistiche sulla cattura delle truppe di Haftar vi sono in realtà profughi africani, vestiti da soldati per mostrare al mondo i presunti successi militari delle milizie di Misurata.
Anche se a Bengasi lo tacciono, stanno ricevendo rinforzi. Un contingente di truppe speciali è giunto dall’Arabia Saudita, in seguito alla recente visita di Haftar a Riad, alla quale ha fatto seguito quella al Cairo, dopo la quale i radar hanno segnalato voli di aerei da trasporto egiziani sui cieli libici.