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“L’interesse nazionale, il manifesto politico di Trump all’ONU”

22 Settembre 2017 - Autore: Marco Respinti

Da La bianca Torre di Ecthelion del 21/09/2017. Foto da articolo

Il primo discorso del presidente Donald J. Trump all’Assemblea Generale dell’ONU martedì 19 settembre suggella la rottura definitiva con la politica estera di Barack Obama e lo fa ergendosi su due formule-pilastro che in se stesse già costituiscono due tesoretti di dottrina politica: il “ritorno del reaganismo” e il “resettaggio dell’isolazionismo”. La strumento è stata l’attualità: Corea del Nord, Iran, terrorismo, Cuba e Venezuela.

Primo: «Gli Stati Uniti hanno grande forza e pazienza», ha detto Trump, «ma, se saremo costretti a difendere noi stessi o i nostri alleati, non avremo altra scelta che distruggere totalmente la Corea del Nord». Non è un rodomontata, ma un messaggio di scenario spedito in caratteri sans serif a nuora affinché suocera intenda. Ovvero alla Cina e alla Russia, decise a re-imporsi a livello internazionale nel momento in cui il ricupero di Washington dopo gli anni dell’arretramento obamiano tende a ridimensionarle. È del resto molto più probabile che alla Casa Bianca preoccupino meno le smargiassate di Kim Jong-un del fatto che Pyongyang stia a una delle estremità della “via delle seta nucleare” che storicamente parte da quel Pakistan cronicamente ambiguo verso il terrorismo di aera e che all’altra estremità raggiunge l’Iran.

Secondo, l’Iran appunto. Trump ha bocciato l’accordo siglato da Obama il 16 gennaio 2016 con cui però Teheran non ha rinunciato al nucleare militare, ma solo accettato di rallentare il programma. Tra 10 anni il Paese sciita avrà mano libera; nel frattempo i suoi tecnici studieranno modelli e procedure acquistando tecnologia come consente la fine voluta da Obama dell’embargo decretato nel 1979 dopo la rivoluzione islamica.

Terzo, il terrorismo. Benché dal 2014 monopolizzi gli schermi bucandoli con exploit raccapriccianti, il terrorismo islamico internazionale non è solo ISIS. «È ora», ha detto Trump, «di denunciare e di mettere davanti alle proprie responsabilità i Paesi che appoggiano e finanziano gruppi terroristici quali al-Qaeda, Hezbollah, i talebani e altri che massacrano persone innocenti».

Infine, il monito a Cuba e Venezuela, Paesi ancora dominati dal socialismo, «[…] un’ideologia fallita che ha prodotto povertà e miseria ovunque sia stata sperimentata». Il regime venezuelano non può continuare a seminare morti per le strade e la revoca dell’embargo decretato contro Cuba dopo la rivoluzione comunista del 1959 è un’altra enormità imperdonabile di Obama.

Un discorso grintoso, ma la cui vera caratura sta oltre l’attualità, sfruttata per consegnare al mondo un manifesto in due movimenti. Il primo movimento è il ricupero della filosofia del “why not victory?” formalizzata nel 1962 con un libro omonimo dal “maestro” Barry M. Goldwater (1909-1998) e messa in atto a partire dal 1980 dal “discepolo” Ronald Reagan (1911-2004) contro l’Unione Sovietica. L’idea cioè che il confronto con i cattivi si possa anche osare vincerlo, anzitutto credendoci. All’epoca di Goldwater fu la rottura del consenso pressoché ubiquo alla politica del “contenimento”; al tempo di Reagan è stata la confutazione dell’idea che con il male si debba scendere a patti, tipica dell’era Jimmy Carter; oggi con Trump è la risposta anche indispettita al sofisma obamiano che ribalta i buoni in cattivi, in fin dei conti sostenendo che in realtà il male nemmeno esiste.

Il secondo movimento è il fare giustizia del luogocomunismo imperante sull’“isolazionismo”. Il termine è sfuggente almeno quanto l’oggi prediletto “populismo”, paralizzante quanto l’abusato “razzismo” e ostracizzante quanto all’epoca della contestazione era la lettera scarlatta “fascismo”. In soldoni, è l’atteggiamento politico non interventista e sostanzialmente autarchico o autogestionario di chi pretende di staccarsi dal mondo usualmente accompagnandosi al protezionismo economico. Bollato come pensiero egoistico e solipsistico, si dice che sia tipico degli Stati Uniti. In verità, non è mai esistito. Ci sono stati fenomeni “isolazionisti” come l’America First Committee che si oppose all’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale e decenni prima una opposizione analoga alla Prima guerra mondiale, ma trarne un pensiero coerente è pressoché impossibile. Trasversali, quei fenomeni contenevano di tutto, dai pacifisti ai nazionalisti, dai buoni cattolici ai socialisti neutralisti, dai Democratici ai filonazisti.

Esiste piuttosto una dottrina politica americana antica quanto il testo d’addio alla presidenza del padre della patria George Washington (1732-1799), pubblicato il 19 settembre 1796 dal Claypoole’s American Daily Advertiser. Si chiama interesse nazionale. Non è un’ideologia, di per sé non è nemmeno un progetto, è l’intendere la politica come servizio al bene comune. Quanto intervento estero e quanto disimpegno siano necessari lo stabilisce cioè la prudenza politica a seconda dei momenti storici. Ora, è impossibile negare che una componente ampia, e trasversale, di trumpiani sia composta da “isolazionisti” e “sovranisti” veri o presunti per i quali ogni coinvolgimento estero è anatema. Ebbene, all’ONU Trump è riuscito a far digerire anche a loro una politica estera che, se c’è bisogno, scende in campo senza essere “imperialista”. E così, mentre il premierfrancese Emmanuel Macron, intervenendo al Palazzo di Vetro dopo di lui, si è autoconsacrato leader dell’internazionale apolide antitrumpista, il presidente degli Stati Uniti ha riproposto una politica estera tipicamente conservatrice in cui il tradizionale scetticismo verso le Nazioni Unite è la misura di quanto stia a cuore il bene comune del Paese di cui si è responsabili. “America First” significa soltanto questo.

Affiancato al discorso pronunciato da Trump a Varsavia il 6 luglio, questo proclama all’ONU è il secondo paragrafo del manifesto del risveglio dell’Occidente che Trump sta per gradi srotolando.

«Se i molti giusti non affronteranno i pochi cattivi, allora il male trionferà». Lo ha detto Trump. Ricorda un adagio attribuito al padre del conservatorismo anglosassone Edmund Burke (1729-1797): «l’unica cosa necessaria affinché il male trionfi è che i buoni non facciano alcunché».

Marco Respinti

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