Da Libero del 27/07/2018. Foto da dw.com
«Mi hanno fatto fuori i Fratelli Musulmani», spiega sconsolato l’ex primo ministro libico Omar Al Hassi in un hotel romano. Era stato a capo del cosiddetto “governo islamista” di Tripoli dal 25 agosto 2014 al 30 marzo 2015, sostituito poi da Khalifa Al Ghawil e dall’attuale premier Fayez al Sarraj.
Ripercorrendo la sua vicenda politica, non si passa soltanto attraverso la storia recente della Libia, ma si rivela anche la politica rinunciataria dell’Italia nel Mediterraneo. Il cruccio di Al Hassi è di non esser riuscito a coinvolgere maggiormente i governanti italiani, che hanno creduto alle voci che lo davano per un estremista islamico: «Dal 2011 Roma è stata assente dalla Libia e davvero non si capisce perché. Nel frattempo, Parigi ha riempito i vuoti lasciati dal vostro governo. E dire che da parte nostra sono stati compiuti sforzi notevoli. Io stesso due anni fa ho scritto una lettera all’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, per sensibilizzarlo, ma non ho mai ricevuto risposta».
Cosa gli aveva scritto?
«Gli consigliavo di non restringere le relazioni fra i nostri due Paesi ai pur importanti interessi reciproci fra la Libia e l’Eni, di puntare sulla cultura. Ma soprattutto proponevo di nominare un vostro connazionale come inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, poiché gli italiani sono in grado di comprendere meglio degli altri gli sviluppi della situazione del nostro Paese».
Non l’ hanno ascoltata?
«Ho scritto a molti, anche ad Alessandra Moretti, deputata del Pd al Parlamento europeo, per denunciare le violenze, i saccheggi, le vendette, che sono stati compiuti con il pretesto di fare la guerra agli islamisti. Vi sono state anche donne uccise, violentate, incarcerate, ma tutto questo sembrava non interessare ai politici italiani».
Che risultati avrebbe potuto ottenere?
«La Corte Penale Internazionale avrebbe potuto muoversi e aprire un’inchiesta per crimini contro l’umanità e conseguentemente spiccare ordini di cattura nei confronti dei responsabili. Forse, se fosse stata si sarebbero potuti fermare dei massacri. Invece attualmente vi sono ancora dei terroristi salafiti, ricercati ma a piede libero in Libia perché nessuno si prende la briga di catturarli» Ora però gli equilibri sono cambiati. C’ è un’ altra maggioranza e un altro governo. L’Italia è l’ unico Paese occidentale ad avere un’ ambasciata operativa a Tripoli operativa e proprio questa settimana ha istituito a Tobruk un Consolato onorario, che coprirà anche il territorio di Beida e Bengasi.
«Spero che significhi che il presidente Giuseppe Conte è più sensibile dei predecessori, come ha già dimostrato con la richiesta di mettere a disposizione della National Oil Corporation (l’autorità libica sugli idrocarburi) i pozzi petroliferi che di recente sono stati riconquistati militarmente».
Non è una pura e semplice questione di potere.
Quello che succede a Tripoli impatta direttamente sugli equilibri politici ed economici italiani. Come nel caso dell’ immigrazione.
Lei come tenterebbe di arginare il fenomeno?
«Per bloccare il traffico di esseri umani, la comunità internazionale deve favorire un processo che vada verso la stabilità. La Libia è un Paese di passaggio, dall’ Africa all’ Europa. Vi operano oltre mille milizie armate e sul territorio si trovano circa un milione di armi e quattro milioni di giovani fra i 18 e i 35 anni.
Lei capisce che, se quell’ arsenale finisce in mano a quella parte di popolazione più propensa al fanatismo religioso o con una mentalità tribale, a rivoluzionari o a banditi, tutti i Paesi vicini, compresi quelli sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, sono in pericolo».
Come evitarlo?
«Occorre innanzitutto la pace. Ma se non vogliamo una guerra civile, non può essere perseguita mediante le armi, a cui occorre rinunciare se davvero si vuole la riconciliazione nazionale».
Eppure, per arrivare alla sconfitta definitiva dello Stato Islamico in Libia non le sembra che sia necessario l’intervento dell’Esercito Nazionale Libico agli ordini del generale Khalifa Haftar?
«Il colonnello in pensione Haftar, che ha distrutto le strade, i mercati, le università, le cattedrali e gli edifici realizzati dall’Italia di Mussolini, non può essere considerato una risorsa per la ricostruzione. Se ha bisogno di architetti, è soltanto per allargare i cimiteri».
Ma come si può perseguire l’obiettivo della pace, se non ci si mette d’ accordo anche con le altre istituzioni di Bengasi e di Tobruk?
«Certamente occorre trovare un accordo anche con la Cirenaica e io stesso sono disposto a inziare un dialogo con lo stesso Haftar. In fondo, la riconciliazione è il frutto del raggiungimento di compromessi. Ma spetta poi alle grandi potenze il compito di negoziare le condizioni e di punire coloro che non rispettano le decisioni adottate legalmente e democraticamente».
Martedì scorso, il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, dopo la visita a Tripoli, ha dichiarato che sarebbe un errore andare alle elezioni in Libia prima di una riconciliazione nazionale. Lo pensa anche lei?
«Certo, ma occorre anche un impegno da parte della comunità internazionale per assicurare la stabilità. In seguito si potranno tenere le elezioni e approvare una Costituzione. Infine, occorrerà promuovere lo sviluppo economico attraverso un partenariato internazionale, per ottenere le tecnologie che ci consentiranno di far ripartire l’economia».
Andrea Morigi