Da “La Nuova Bussola Quotidiana” del 07 novembre 2016
Con l’intervento dell’avv. Maria Letizia Russo prosegue la collaborazione del Centro studi Livatino (www.centrostudilivatino.it) tesa a illustrare i passaggi più significativi della riforma costituzionale e a sottolinearne i profili problematici, allo scopo di avvicinarsi alla scadenza del voto referendario avendo consapevolezza dei contenuti delle modifiche, e lasciando da parte gli slogan. Quello che compare oggi torna sul tema del rapporto Stato-Regioni nell’ottica della sussidiarietà territoriale, a seguito dell’approvazione della riforma. Ricordiamo che, trattandosi di referendum confermativo, non è necessario il quorum: chi non condivide la riforma non può confidare su un numero elevato di astenuti: la sola strada per manifestare il proprio dissenso è votare No.
Torniamo sul rapporto fra Stato e Regioni all’interno della riforma e sul rispetto della sussidiarietà territoriale. Uno degli slogan adoperati per il voto referendario spiega che le modifiche costituzionali riguardano solo la seconda parte della Costituzione e non intervengono alla prima parte di essa: accade però che più d’uno dei passaggi della riscrittura della seconda parte, approvata dal Parlamento, si pone in contrasto con disposizioni-chiave della prima. E’ così, per esempio, ponendo l’uno a fianco all’altro il nuovo titolo V con l’art. 5 della Costituzione, in base al quale “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali, attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.”
In una delle sue prime disposizioni, la Costituzione ritiene fondamentale la più ampia autonomia delle realtà locali, a vario livello, perché consente a ogni comunità di autoregolarsi nel rispetto di valori comuni e di esigenze specifiche, e quindi limita l’invadenza dello Stato. In altri termini, sembra rifuggire gli estremi degli strappi autonomistici da un lato e dell’imposizione statalistica dall’altro, puntando a quella sussidiarietà felicemente riassunta nella formula”tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario”. Nei lavori dell’Assemblea Costituente è possibile leggere in proposito che «un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione (è) il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari e antidemocratici.” E a proposito dell’art. 1, nel quale si afferma che la sovranità appartiene al popolo, si precisa che “questo articolo, con cui si apre la Costituzione e che detta i primi di quei Principi fondamentali entro cui è incorniciato il volto della Repubblica, pone, al suo primo comma, la caratterizzazione costituzionale dello Stato italiano; la quale è poi completata dall’articolo 5. Confrontando i due articoli e tenendo presente lo spirito con cui essi furono votati, si ricava che l’Italia è: Stato repubblicano; Stato democratico; Stato parlamentare; una e indivisibile; Stato regionale”.
Sul titolo V l’on. Ruini scrisse nella sua relazione al progetto che «L’innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese. (…) Il Comune: unità primordiale; la Regione: zona intermedia ed indispensabile tra la Nazione e i Comuni (…). Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il Governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di se medesimi (…). La tendenza si collega alle rivendicazioni di libertà, che sono la grande nota di questo momento storico: di tutte le libertà, anche degli enti locali come «società naturali».
La modifica del titolo V contenuta nella riforma sottoposta a referendum va esattamente nella direzione opposta: come è stato più volte ricordato anche su questo quotidiano, in essa solo la Camera rappresenta la Nazione, mentre il Senato “rappresenta le istituzioni territoriali”, ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Le Regioni, che dovrebbero essere la massima espressione dell’autonomia in omaggio al riconoscimento delle rispettive diverse identità, hanno al Senato la rappresentanza indiretta con propri consiglieri o con i sindaci, in un organo che esercita funzioni di raccordo: è espressamente sancito che la rappresentatività non è del popolo ma “delle istituzioni”. Questo indebolisce la rappresentatività di chi entra al Senato per conto delle Regioni e di fatto rende le Regioni sempre più soggette al potere centrale. Ulteriori limitazioni al potere normativo delle Regioni derivano dal nuovo art. 116 Cost., con l’ampliamento delle materie riservata al potere statale, per es. quanto alle politiche sociali, del lavoro, dell’istruzione e formazione professionale, del governo del territorio: materie per le quali la specificità territoriale dovrebbe mantenere un peso, poiché riguardano lo sviluppo economico – e non solo – delle Regioni, torneranno sotto controllo dell’autorità centrale. Per non parlare della competenza esclusiva dello Stato in materie quali il turismo, la tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, le forme di associazione tra i Comuni; cui si aggiunge la possibilità che su proposta del Governo la legge dello Stato intervenga in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.
E’ una riforma che riduce fortemente gli spazi di autonomia. E’ un intento dichiarato: due anni fa, in occasione di una Leopolda il premier annunciava:””Non voglio prendermela con i corpi intermedi, ma la disintermediazione dei corpi intermedi avviene dai fenomeni di cambiamento che la realtà sta producendo”. I corpi intermedi – inclusi quelli territoriali – sono un’estensione della persona. “Disintermediazione” vuol dire, alla lettera, fare a meno il più possibile di intermediari. Intermediazione può anche significare lungaggini e scarsa efficienza, ma impone sempre riflessione e attenzione: qualche realtà territoriale intermedia fra il singolo e lo Stato contribuisce a proteggere le libertà. La loro scomparsa/riduzione fa sì che pochissimi individui gestiscano i più articolati circuiti di potere. L’alternativa al funzionamento difettoso è la valorizzazione della sussidiarietà e della efficienza, non l’accentramento e la riduzione della libertà.
Maria Letizia Russo