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Lo splendore del vero

22 Dicembre 2018 - Autore: Don Piero Cantoni

di don Piero Cantoni

La tradizione estetica medioevale, da cui dipende direttamente san Tommaso d’Aquino (1225-1274), soprattutto attraverso il suo maestro, sant’Alberto Magno (1200-1280), ha espresso una famosa definizione del bello: pulchrum est quod visum placet. L’espressione, per non essere fraintesa, va collocata nel suo contesto più ampio: «Veramente il bello ed il buono nel soggetto in cui esistono si identificano […]. Ma nel loro concetto proprio differiscono. Il bene riguarda la facoltà appetitiva, essendo il bene ciò che ogni ente appetisce, e quindi ha il carattere di fine, poiché l’appetire è come un muoversi verso una cosa. Il bello, invece, riguarda la facoltà conoscitiva; belle infatti sono dette quelle cose che viste destano piacere» (Iª-IIae q. 27 a. 1 ad 3). Perciò la frase pulchrum est quod visum placet non può e non deve essere tradotta “bello è ciò che piace”, ma “il bello è ciò che – visto, appreso, cioè conosciuto – piace”. Il bene dice relazione alla tendenza (all’appetito razionale), il vero alla conoscenza, il bello a tutte e due. Si dà percezione estetica, quando si coglie qualcosa di vero e di buono, e questo suscita gioia.

Perché una cosa sia bella, occorre dunque che sia conoscibile. Ma niente può essere conoscibile se non è qualcosa di determinato. Occorre allora una “forma”, una struttura ideale, un’armonia oggettiva. Gli elementi oggettivi costitutivi dell’oggetto bello, secondo l’estetica medioevale, sono la claritas (lo “splendore”), l’integritas (l’integrità, la completezza delle parti) e la debita proportio. La presenza di una forma nella cosa (e ogni cosa è determinata, ha una misura, una forma, è una res) ne produce lo “splendore”. Vi è nelle cose una luce oggettiva per cui esse sono proporzionate alla conoscenza. Quando questa forma ha tutto quello che è necessario per trasmettere l’“idea”, allora vi è l’integritas e quindi una proporzione all’intelligenza.

Quando diciamo claritas, splendore, mettiamo in luce che qui la conoscenza è una conoscenza immediata, evidente, che l’intelletto coglie senza mediazione e da cui viene illuminato, perché c’è tutto quello che serve per illuminarlo e questo si ritrova proporzionato a lui.

Dire che sia “evidente” non significa dire che lo sia per tutti indistintamente, né che chi coglie questa evidenza sia in grado di trasmetterla agli altri in modo adatto ed efficace. Vede una luce, la riconosce come tale, ma non è detto che sia in grado di dire perché la vede: la vede e basta. La conoscenza, che è il necessario presupposto dell’esperienza estetica, non è dunque il frutto del lavorío della ragione che discorre, confronta e conclude. Ecco perché san Tommaso dice visa, non cognita. Non che alla ricerca razionale e allo studio sia precluso ogni momento (e godimento…) estetico. Esso però appartiene a quel momento indivisibile che ne è a volte il frutto e anche il motore. A quel momento magico che si distingue e si separa dallo “studio” (cioè fatica, lavoro) che lo precede e che lo prepara, in cui la forma “brilla” attraverso e al di sopra delle parti (complete, integrali) proporzionate tra di loro e stabilenti una vitale proporzione con l’intelletto che intus-legit.

L’integrità dell’oggetto bello non è la presenza di tutto quello che ci deve essere in natura. Gli esempi nel bello artistico sono evidenti. Un busto sarebbe un mostro in natura, ma può essere bellissimo e trasmettere quella forma che deve trasmettere. La forma per così dire “traspare” attraverso la pesantezza del corpo. Ma anche nel bello di natura si ha qualcosa di simile. Non è necessario percepire tutte le parti che costituiscono un corpo naturale per coglierne la bellezza. Anzi, ciò sarebbe un ostacolo. Anche qui si può dire che l’albero nasconderebbe la foresta. I troppi dettagli disturbano quando si tratta di intravvedere una forma che traspare da e attraverso una percezione sensibile.

Questo aiuta a capire che al bello appartiene anche – direi – il mistero. La forma traspare, non appare del tutto: appare quel tanto perché si renda possibile una proporzione. Il bello è sempre sublime cioè sub-limen, arriva alla soglia più elevata. Però sempre sub, al di sotto. Alla soglia suprema, ma senza mai oltrepassarla e potersela lasciare alle spalle. Se lo facesse, svanirebbe il mistero e, con il mistero, la bellezza. Si affaccia a una soglia e in una situazione intermedia, “tra”. Solo così si delinea una proporzione (cioè relazione) e si staglia un rapporto.

Il bello ha dunque sempre a che fare con la percezione sensibile. Dobbiamo dedurne che si tratta di una proprietà dei corpi in quanto tali? No. Il fatto è che per l’uomo la conoscenza intellettuale del singolare concreto non può avvenire che mediante la partecipazione dei sensi. Per conoscere il particolare l’uomo deve operare una sintesi tra la propria conoscenza intellettuale, che è sempre dell’universale, e le proprie percezioni sensibili, che sole gli danno il particolare qui ed ora. Ecco perché la percezione estetica, che è sempre intuitiva, può avvenire solo attraverso una percezione sensibile.

Quando il bello viene disancorato dalla conoscenza della forma, come spesso accade nell’estetica moderna, si riduce alla dimensione sensibile e fenomenica perdendo di vista il proprio legame intrinseco e indissolubile con il vero e con il bene. Il disinteresse estetico diventa separazione dal vero e dal bene, e smarrimento dell’oggettività, inevitabile conseguenza dell’aver smarrito il senso dell’essere.

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