Da La bianca Torre di Ecthelion del 21/01/2018. Foto da articolo
Si parla sempre più spesso di “popoli originari”. È un neologismo che traduce letteralmente l’espressione “aborigeni” (dal latino ab origine). Molto probabilmente perché, vista la tracotante ignoranza del tempo in cui viviamo, qualcuno avrà pensato che “aborigeno”, scambiandolo per un sinonimo di “selvaggio” o equipollenti, sia un termine offensivo. Chi se la sente insomma di reggere lo sguardo del prossimo trinariciuto dicendo candidamente al bar che, che so, Nelson Mandela è un aborigeno sudafricano?
Ora, “originari”, “aborigeni” o “nativi” sono tutte espressioni che veicolano la medesima idea: che certi popoli siano gli abitatori primigeni di una certa terra, di cui sono dunque i possessori legittimi e titolati, talora persino culturalmente tutt’uno con essa. Però è falso.
Quali sono, infatti, i popoli “originari” di un determinato territorio? Scegliamo a caso. Si parla in lungo e in largo dei “nativi” americani per intendere quelli che Cristoforo Colombo (1451-1506) battezzò “indiani” pensando di essere arrivato in Oriente, che la finezza linguistica ha poi ribattezzato “amerindi” e che non sempre con garbo vengono indicati anche come “pellerossa”. Non sono nativi americani per nulla. Sono i discendenti delle popolazioni altaiche dell’Asia (con cui hanno infatti ancora in comune dei tratti somatici) che attraversarono il “ponte” (in realtà largo anche fino a 1600 chilometri) di terra e ghiaccio (in realtà una sorta di enorme acquitrino) della Beringia, il quale nel Pleistocene congiungeva la punta estrema della Siberia con l’Alaska attuale e che oggi è sommerso dal braccio di mare noto come Stretto di Bering. Una volta attraversato l’istmo, dilagarono in tutto il continente americano prendendone possesso. Si dirà che allora l’America era deserta e che quindi gli “indiani” non hanno sottratto niente a nessuno, ma lo stesso vale in decine di altri casi moderni in cui i nuovi arrivati, per esempio gli europei, sono giunti in territori tecnicamente non privi di presenza umana, ma di fatto vuoti. Quando, nella primavera del 1541, il conquistador spagnolo Francisco Vázquez de Coronado (1510 ca.-1554) si spinse con i propri uomini attraverso quelli che oggi sono New Mexico, Texas, Oklahoma e Kansas marciò per 37 giorni, forse male indirizzato (apposta?) da un “indiano”, senza incontrare anima via e poi tornò indietro. E oggi basta un aereo coast-to-coast per rendersi conto che quelli appunto rinominati “fly-over states” sono davvero spopolati…
Gli indios Mapuche nel Cile centromeridionale, che loro o chi per loro bruciano chiese e scuole per rivendicare dallo Stato cileno il possesso di una terra con cui s’identificano (il loro nome, in lingua Mapudungun, significa appunto “gente della terra”), sono lì da circa 500-600 anni prima di Cristo. Prima però c’erano i Tehuelche.
Una fetta enorme di mondo, dal Maghreb all’Indonesia, è ancora oggi più o meno arabizzata come esito della colossale conquista islamica. E gli Ebrei della Bibbia arrivano nella Terra Promessa guidata da Mosè e poi da Giosuè, ma non ci sono nati.
La storia d’Europa è una continua migrazione. Il regno dei nordici Vandali fu in Nordafrica e i biondi Visigoti soppiantarono Iberi, Celti e Baschi della Penisola iberica. I magiari dell’Ungheria vengono dalle steppe dell’Asia centrale. Le isole britanniche erano abitate da popolazioni celtiche che furono invase, nel secolo V, da Angli, Sassoni, Iuti e Frisoni continentali, poi invasi pure loro, nel secolo XI, dai Normanni, stanziatisi circa un secolo prima nel nord della Francia dalla Scandinavia. Roma ha romanizzato quasi tutto il mondo allora conosciuto. E il folclore nazionale dell’Irlanda, così fieramente opposta all’anglicizzazione, tramanda che i popoli gaelici giunsero nell’Isola Verde da invasori, spodestando i mitici Túatha Dé Danann, che avevano spodestato i mitici Fir Bolg, una popolazione scura, che avevano spodestato i mitici Fomoriani. Il Lebor Gabála Érenn, che significa “Libro delle invasioni dell’Irlanda”, del secolo XII, riporta tutto. Dèi sorpassati, etnie mitologiche, popoli storici chi lo sa, ma qualcosa tutto questo vorrà pur dire. Come che sia, i celti lì non sono autoctoni (i Pitti di Scozia sono forse il resto di chi c’era prima). E la Lombardia si chiama ancora oggi così per via dei Longobardi nordici della Scandinavia meridionale.
Si potrebbe continuare pressoché all’infinito. Nessun popolo è davvero “originario”. Per la Bibbia e per la dottrina cattolica, gli unici aborigeni sono Adamo ed Eva, i santi progenitori del genere umano “colonizzatore” e “invasore” che nacquero nell’Eden, forse ubicabile, stando alla Genesi, nella Mesopotamia meridionale. Per la scienza, l’uomo attuale deriva da quella che i ricercatori hanno soprannominato “Eva mitocondriale” (di tutte le formule possibili hanno scelto quella biblica, notevole). Saremmo cioè tutti il frutto di una discendenza femminile, posta a circa 200mila anni fa, più o meno in Africa. Lo dice la comparazione del DNA contenuto nei mitocondri (mtDNA), gli organelli che sono presenti in tutte le cellule di tutti gli esseri appartenenti ai cinque regni della vita: animali, piante, funghi, protisti (misteri della sublimità biologica che non sono né animali, né piante, né funghi) e cromisti (altri microrganismi unicellulari o pluricellulari a se stanti). Solo il DNA mitocondriale si trasferisce infatti dalla madre alla prole e così si è potuto localizzare l’antenato comune. Umano, non scimmia. Con l’mtDNA anche l’evoluzionismo si dice pago, benché di evoluzionistico l’“Eva mitocondriale” non abbia alcunché. Una intera branca della scienza, la genetica delle popolazioni, studia le conseguenze di questa meraviglia.
Insomma, dire “popoli originari” ha lo stesso senso che dire “razza pura”. Cioè nessuno: esiste infatti una sola “razza” umana ed è quindi ovvio che sia “pura”. Guadandone l’antroposfera, la Terra più che un globo è dunque una cipolla: fatta a strati. Spesso dolorosi, perché Adamo ed Eva un’altra cosa sul serio originale ce l’hanno trasmessa, il peccato, ma non sempre e solo così. L’uomo è poi capace di chiamare patria qualsiasi luogo, e a buon diritto se non travalica la giustizia. Che però non è una questione micragnosa di chi è arrivato falsamente primo giusto in tempo per buttare dalla torre tutti gli altri. A meno di non volerci costruire sopra una ideologia che usa lo specchietto per le allodole dell’“indigenismo” per cercare di aggiornare la sdrucita lotta di classe.
Marco Respinti