Da “lintraprendente.it” del 17 novembre 2016. Foto da giornalettismo.com
Non hanno bucato il video, ma le elezioni presidenziali svoltesi domenica 13 novembre in Bulgaria e in Moldova hanno segnato una svolta importante. In Bulgaria ha vinto Rumen Radev, un ex militare neofita della politica entrano in scena nelle fila del Partito Socialista. Ai vertici istituzionali della Moldova è invece stato eletto Igor Dodon, sospinto pure lui dal Partito Socialista.
Il tratto politico che li accomuna è, oltre al socialismo, l’essere filorussi.
La svolta di sinistra dei due Paesi est-europei è dunque anche una rivolta contro l’Occidente. E, ovvio, viceversa.
Proprio non è il caso di strapparsi ingenuamente le vesti gridando al ritorno della Guerra fredda e temendo i cosacchi nelle nostre piazze, ma è un dato di fatto altamente significativo che due tasselli dell’ex spazio geopolitico sovietico tornino a infeudarsi alla Russia.
Certo, con tutto il rispetto per la Bulgaria e per la piccola Moldova, non stiamo parlando di colossi strategici in grado d’impensierire i Paesi confinanti, ma è il dato politico, e pure culturale, quello che importa. La Russia esercita cioè un fascino crescente sul alcuni Paesi sovrani in territori ex sovietici, ma soprattutto affascina i partiti di sinistra e antioccidentali di quei Paesi.
Inutile girarci intorno. Quel che più divide oggi l’Ovest e l’Est è il confine della NATO.
La Russia si sente minacciata dall’Alleanza atlantica che preme (o sembra premere) ai suoi confini perché a quei confini, che visti da occidente sono confini baltici, polacchi e ucraini, preme (o sembra premere) quella Russia che è percepita come una minaccia proprio perché preme temendo di essere premuta, e così via in un nastro di Moebius infinto.
I filorussi giudicano intollerabile il tentativo della Nato di espandersi verso oriente e i filo-occidentali ritengono insopportabile il tentativo russo di condizionare la politica di Stati ex sovietici che forse Mosca non si è mai completamente convinta a lasciar andare, o addirittura di annettersi pezzi di Ucraina. In questo scenario tesissimo la sola novità possibile la può portare il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump, deciso a ricucire quanto più possibile il rapporto tra Occidente e Russia, riaffermando al contempo l’imperium statunitense. È infatti falso dire che Trump indebolirà la Nato.
Come ha ricordato il segretario generale Jens Stoltenberg a Bruxelles, «il presidente eletto Donald Trump ha dichiarato durante la campagna elettorale che è un grande fan della Nato».
La Nato, infatti, Trump cercherà di rafforzarla nella misura in cui essa serve l’interesse occidentale e per questo tramite anzitutto l’interesse statunitense, ma lo farà con un’idea nuova. Quella che chiama in causa la responsabilità degli Alleati stessi, i Paesi membri dell’Alleanza, i quali, invece che continuare a lasciarsi gestire da Washington, spese comprese, saranno chiamati a metterci del proprio. Per esempio per quel che riguarda le enormi spese di gestione.
Il che ha più a che fare con la riforma del welfare (un “welfare internazionale”) che con il ritiro ideologico dall’idea Occidente, e magari pure con l’idea sacrosanta che ognuno è sovrano a casa propria e pertanto paga le bollette. La Nato di Trump sarà insomma diversa dalla Nato di Barack Obama e di Hillary Clinton soprattutto là dove cercherà di dare alla Russia meno scuse per gridare al lupo; al contempo, sarà la Nato di sempre per quanto riguarda le ragioni per cui è nata ed esiste.
Quello che però irrita sempre è il doppiopesismo.
Perché mai l’espansionismo della Nato viene considerato comunque una provocazione mentre l’espansionismo russo è giudicato sempre legittimo? Forse in nome di una specie di “sindrome di Versailles” (di cui si fanno interpreti adesso anche i socialisti filorussi di Bulgaria e Moldova), e cioè l’idea che la perdita, dopo il 1989, dei territori usurpati a suo tempo dall’Unione Sovietica, ma anche del e satelliti, sia un’onta intollerabile ai danni della Russia la quale avrebbe dunque il diritto intrinseco di riprendersi il proprio lebensraum?
Marco Respinti