Non so sinceramente che posto occupi la Guerra di Corea nei programmi scolastici di storia contemporanea: ai miei tempi non c’era. Se qualcuno volesse recuperare, però, può stare tranquillo: al 38° parallelo il tempo si è fermato al 1953, anno dell’armistizio che pose fine ai combattimenti. Armistizio non pace, per cui, tecnicamente, i due paesi sono ancora in stato di guerra. Intendiamoci: in realtà è cambiato praticamente tutto dentro ed attorno alla penisola coreana. Il grande quadro, però, è rimasto uguale: un Nord in mano ad una dittatura familistica tuttora tinta di un sanguinario rosso comunista ed un Sud che prospera(va) dentro un feroce capitalismo sotto l’ombrello difensivo americano. Immutata è rimasta pure la linea del fronte, il 38° parallelo del 1953, che, essendo il confine più armato del pianeta, si chiama – curioso paradosso del lessico diplomatico – “zona smilitarizzata”.
Alcuni analisti pensano che anche chi non ha mai sentito nominare la Guerra di Corea degli anni ’50 potrebbe comunque avere occasione di godersi la prossima in diretta. Quello che è certo è che da un po’ di tempo a questa parte si sente evocare con una sconcertante “naturalezza” la possibilità di una nuova conflagrazione bellica tra le due Coree.
In questo contesto si inserisce la notizia dell’assassinio, avvenuto in Malesia il 13 febbraio, di Kim Jong-nam, primogenito di Kim Jong-il e fratellastro dell’autocrate rosso Kim Jong-un. Che si tratti di una Dynasty in versione pulp o di una spy-story in salsa orientale, questo episodio ci aiuta a focalizzare la nostra attenzione su alcuni aspetti meno noti della questione coreana.
Dipinto spesso dalle cronache come uno sfaccendato, Kim Jong-nam era in realtà un personaggio piuttosto singolare. Cresciuto in Svizzera, parlava quattro lingue ed era buon amico dei cinesi, vicini straordinariamente interessati alle vicende coreane e spesso imbarazzati dagli atteggiamenti del fratello dittatore.
Prima di cadere in disgrazia nel 2001, per una strana storia di passaporti falsi, Kim Jong-nam aveva ricoperto ruoli di fiducia sotto il regime del padre. Uno di questi è stata la fondazione del KCC (Korea Computer Center): il maggiore centro di ricerca e sviluppo di tecnologie informatiche della Corea del Nord. Non stiamo parlando di tecnologie elettroniche destinate a supportare armi tradizionali, anche atomiche, ma di strumenti per combattere le cyber-war, guerre asimmetriche nello spazio digitale.
Due pregiudizi vanno sfatati sulla Corea del Nord: il primo è che affidi esclusivamente la propria difesa/offesa militare alle armi nucleari, il secondo che sia un paese arretrato dal punto di vista tecnologico.
Nel panorama dei cyber attacchi gli “hacker” nordcoreani si sono conquistati una fama di tutto rispetto. Nel 2014, come ritorsione al rifiuto della Sony Pictures di ritirare il film The Interview nel quale si raccontava un tentativo di assassinare Kim Jong-un, i cyber-soldati di Pyongyang hanno attaccato i server del colosso dei media. Hanno copiato e reso pubblici migliaia di documenti riservati, tra i quali la sceneggiatura completa di 007 SPECTRE, ancora in lavorazione. Tra il 2009 e il 2013 i servizi occidentali hanno documentato decine di attacchi informatici provenienti dalla Corea del Nord e prevalentemente diretti contro infrastrutture strategiche della Corea del Sud. Tramite una tecnica definita DDoS (Distributed Denial of Service) – che consiste nell’indirizzare centinaia di migliaia di accessi contemporanei allo stesso server, rendendolo vulnerabile – hanno bloccato per giorni alcuni servizi essenziali. Nel 2009 hanno paralizzato una parte del sistema bancario di Seul, bloccando il Bancomat di 30 milioni di utenti per quasi una settimana; nel 2013 hanno paralizzato il funzionamento di 69 diversi uffici pubblici coreani, compresa la Presidenza della Repubblica. Nel 2014 è stata la volta del Korea Hydro & Nuclear Power, dai cui dipendono le cinque centrali nucleari del paese.
Il Colonnello Cho Myung-rae, a capo di uno dei software-lab della struttura militare nordcoreana, è ritenuto l’autore del noto virus JML, causa di danni per un numero imprecisato di milioni di dollari in tutto il mondo. La forzatura di codici di sicurezza che permettono la diffusione di versioni “craccate” di software e videogiochi è diventata una voce di entrata importante nel bilancio nazionale.
Non ci si ferma al mondo “civile”: in almeno un paio di casi, tra cui uno scambio di colpi di artiglieria sul confine tra le due Coree nel 2010, gli hacker di Kim Jong-un hanno bloccato o disturbato radar e sistemi di allarme remoto delle unità militari avversarie.
Ad inizio 2016 il CSIS (Center for Strategic & International Studies) ha pubblicato un report, elaborato da quattro ricercatori della Georgetown University, significativamente intitolato: North Korea’s Cyber Operations: Strategy and Response. Questa ricerca – dalla quale sono tratti molti dei fatti che riporto – ha evidenziato come la cyberwarfare sia una colonna portante degli investimenti per la proiezione di potenza militare di Pyongyang. Ne sono coinvolti tre diversi ministeri, decine di reparti militari specializzati, due facoltà universitarie di alto profilo, due grandi industrie di stato (una è appunto il KCC, fondata dall’appena defunto Kim Jong-nam) e migliaia di tecnici.
A capo di questa struttura sono stati messi due generali (Kim Jong-chol e O Kuk-ryol) intimi del Leader sin dai tempi della sua infanzia, con i quali si relaziona spesso e direttamente, a riprova dell’importanza che attribuisce al settore. Ben conscio dell’inadeguatezza e della rapida obsolescenza del proprio arsenale convenzionale e dell’impossibilità di sostenere a lungo una corsa agli armamenti nucleari con i suoi avversari, Kim Jong-un punta sulla moltiplicazione di forza che le minacce asimmetriche generano, con minor spesa, nel quadro strategico regionale e mondiale. A questo dobbiamo ovviamente aggiungere la tensione generata dai test nucleari e missilistici che regolarmente vengono condotti e che testimoniano comunque una crescita tecnologica sempre più importante.
Per contro l’avversario naturale, la Corea del Sud, attraversa un periodo di straordinaria debolezza interna. La messa in stato di accusa della Presidente Park Guen-hye per una brutta storia di corruzione e creduloneria, la crisi dei grandi gruppi industriali, nerbo dell’economia del paese, e la corruzione dilagante generano instabilità e insicurezza che sfocia spesso in manifestazioni di piazza anti-governative dai toni virulenti.
Le diplomazie faranno il loro mestiere e l’intricato gioco di forze che attraversa l’Asia orientale potrà, forse e per un po’ di tempo, ammortizzare i picchi di tensione ma, come abbiamo visto, anche i pessimisti hanno qualche freccia per il proprio arco.
Valter Maccantelli