« Direte dunque: Al Signore, nostro Dio, la giustizia; a noi il disonore sul volto, come oggi avviene per l’uomo di Giuda e per gli abitanti di Gerusalemme, per i nostri re e per i nostri capi, per i nostri sacerdoti e i nostri profeti e per i nostri padri, perché abbiamo peccato contro il Signore, gli abbiamo disobbedito, non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, che diceva di camminare secondo i decreti che il Signore ci aveva messo dinanzi. Dal giorno in cui il Signore fece uscire i nostri padri dall’Egitto fino ad oggi noi ci siamo ribellati al Signore, nostro Dio, e ci siamo ostinati a non ascoltare la sua voce. Così, come accade anche oggi, ci sono venuti addosso tanti mali, insieme con la maledizione che il Signore aveva minacciato per mezzo di Mosè, suo servo, quando fece uscire i nostri padri dall’Egitto per concederci una terra in cui scorrono latte e miele. Non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, secondo tutte le parole dei profeti che egli ci ha mandato, ma ciascuno di noi ha seguito le perverse inclinazioni del suo cuore, ha servito dèi stranieri e ha fatto ciò che è male agli occhi del Signore, nostro Dio » (Bar 1,15-22).
Il libro di Baruc non ci è pervenuto in ebraico, ma in greco. Per questa ragione non fa parte del canone delle Sacre Scritture accettato dagli ebrei e non entra come libro ispirato da Dio neppure nelle Bibbie protestanti. Buona parte del libro, se non tutto, è stato scritto originariamente in ebraico. Certamente il brano che leggiamo oggi. Esso ci riporta al momento critico e terribile della distruzione di Gerusalemme e dell’esilio, anzi, al momento dell’immediato ritorno. È una confessione in cui gli ebrei che hanno deciso di ritornare riconoscono con umiltà i loro peccati. Non hanno timore di confrontare i loro comportamenti cattivi con l’elevata e irraggiungibile giustizia di Dio. Facendo così sperimentano che quella stessa giustizia non li condanna, ma li “giustifica”. Che cosa dice a noi questa parola di Dio? Ci raggiunge in una situazione che – se è storicamente diversa da quella del popolo di Israele nel momento del suo ritorno – è, nella prospettiva della sapienza divina, esattamente la stessa. Non dimentichiamo che “ritorno” (תְּשׁוּבָה) è il termine con cui gli ebrei designano quello che noi chiamiamo “conversione”. Uno potrebbe dire: ma io mi sono già convertito, sono un cattolico apostolico romano! No caro, tu non ti sei convertito, hai solo – per pura e immeritata grazia di Dio – ‘incominciato’ a convertirti. Nel processo della conversione il ricordo del peccato costituisce un momento importate. ‘Senso del peccato’ non è però la stessa cosa del ‘senso di colpa’. Non si tratta cioè di lasciarsi divorare dal rimorso e dall’angoscia di essere peccatori, ma di riconoscere umilmente di non meritare nessuna misericordia e accogliere così con stupore e riconoscenza il perdono immeritato di Dio. Unica ‘condizione’: se accolgo veramente e concretamente il perdono, allora inevitabilmente anch’io perdono… Magari non ‘sento’ il perdono, però ‘voglio’ perdonare.