Da “La bianca torre di Echtelion” del 12 dicembre 2009. Foto da France Catholique
Vi è una costante nel mondo universitario francese di oggi. Certi maiuscoli demografi sono stati o sono anche insigni storiografi, vuoi nel senso accademico del termine vuoi in un significato più ampio ma non meno serio dell’espressione. Anzitutto Alfred Sauvy, che coniò l’espressione “Terzo Mondo” parafrasando un altro famoso conio, “Terzo stato”, inventato dall’abbé giacobino Emmanuel-Joseph Sieyès, Sauvy alla cui memoria è intitolata una piazza, a Parigi, 15° arrondissement, l’uomo che il generale Charles de Gaulle volle ministro per la Famiglia e per la Popolazione, che diresse poi l’Istituto nazionale di studi demografici francese e che pure rappresentò la Francia alla Commissione di Statistica delle Nazioni Unite. Quindi Gérard-François Dumont, classe 1948, specialista di “geografia umana” nonché fondatore di una disciplina accademica nuova, la “demografia politica”, la quale si basa sulla geopolitica delle popolazioni. E poi il grande Pierre Chaunu.
Una seconda costante che unisce demografi-storici-economisti-geografi è l’appartenenza sincera e schietta, mai ne han fatto mistero, alla cultura conservatrice; non però, come spesso avviene in Francia ma pure in Italia, semplicemente al côté destro del conformismo liberal, bensì a quella visione globale del mondo che gli avversari vorrebbero liquidare in fretta e furia bollandola come “reazione”. Il grand père Joseph de Maistre la chiamò contro-rivoluzione e n’ebbe ben donde, spiegandola non come una rivoluzione di segno contrario, ma come il contrario stesso della rivoluzione. La Rivoluzione francese, ovvio, ma anche tutte le sue figlie. Ebbene, proprio a ciò si richiamano più o meno direttamente i Sauvy, i Dumont e gli Chaunu (tra i primi per esempio a mettere il dito, decenni fa, sul buco nero provocato dalle politiche dell’antinatalismo comunista cinese), cosa che non è certo costata poca sofferenza a dei francesi, persino a dei gran-francesi come loro. Ma la verità ha le sue esigenze, quella scientifica per prima.
Pierre Chaunu è morto il 22 ottobre a Caen, nel Calvados, Bassa Normandia. Era nato il 17 agosto 1923 a Belleville-sur-Meuse in Lorena, a 1 km e mezzo dal terribile campo di battaglia di Verdun. Fu sin da giovane fortemente influenzato dall’histoire événementielle di Fernand Braudel e della Scuola degli Annales parigini fondata da Lucien Febvre e Marc Bloch, quella che come poche ha saputo rivalutare il ruolo della vita materiale degli uomini nello studio della storia, e questo sottolineandola pure nei suoi aspetti demografici, economici e di costume. È stato così che Chaunu è riuscito a costruire, anno dopo anno, panoramiche ed expertise sull’America spagnola nonché sulla vita sociale e religiosa dei secoli dal XVI al XVIII, tra Riforma protestante e Riforma cattolica, Tradizione e Illuminismo, che ancora oggi contano pochi rivali. Del resto, entrato nel 1948 all’École des Hautes Études Hispaniques dopo essere divenuto professore di liceo a Bar-le-Duc nel 1947, fino al 1951 aveva approfondito direttamente questo suo amore primario vivendo tra Madrid e Siviglia.
Insegnante al liceo Jules Michelet di Vanves nel 1951, nel 1956 Chaunu viene chiamato alla Faculté des lettres di Parigi e dal 1956 al 1959 è attaché de recherche al Centro Nazionale della Ricerca Scientifica. Il botto lo fa pubblicando, fra il 1955 e il 1960, la sua tesi monumentale, Séville et l’Atlantique (1504-1650) (Sevpen, Parigi), in ben dodici volumi, e con lui fa il botto anche la storiografia di settore, trasformata per sempre. Assunta cattedra all’Università di Caen nel 1962, tra scienze sociali ed economia, informatica e statistica, fonda, nel 1966, il Centro di Ricerche di Storia quantitativa, secondo una idea ben precisa dell’uomo e delle sue cose: «i grafici delle nascite», diceva infatti lo studioso, «mi paiono sicuramente più profetici delle tendenze complessive del Dow Jones». Nel 1970 diviene professore di Storia moderna alla Sorbona (Paris IV) e nel 1982 è scelto per l’Accademia di scienze morali e politiche.
Dagli anni Ottanta scrive regolarmente su Le Figaro e dal 1994 al 2005 conduce la trasmissione settimanale Les mardis de la mémoire dai microfoni – ecco, ci siamo – di Radio Courtoisie, “la Radio Maria della Destra francese”, outspoken quanto basta, aperta (afferma) a tutte le destre, eppure sul piano culturale rigorosamente sempre a destra del Front National, capace com’è di un infotainment di gran levatura affidato a nomi quali lo storico dell’Outremer francofono Bernard Lugan, l’economista “austriaco” Jacques Garello, il contemporaneista Jean-Paul Bled, il pittore Philippe Lejeune (fratello del più noto Jérôme Lejeune, fondatore pro life della genetica moderna) e appunto il nostro Chaunu. I cui libri nel frattempo sono divenuti legione. Les Philippines et le Pacifique des ibériques (Sevpen, 2 voll., 1960-1966); La civilisation de l’Europe classique (Arthaud, Parigi 1966); L’Espagne de Charles Quint (Sedes, Parigi, 2 voll. 1973); Démographie historique et système de civilisation (EFR, Roma 1974); Le temps des Réformes (Fayard, Parigi 1975); De l’histoire à la prospective (Laffont, Parigi 1975); Histoire quantitative, histoire sérielle (Colin, Parigi 1978); Histoire et imagination. La transition (PUF, Parigi 1980); Histoire et décadence (Perrin, Parigi 1981); Apologie par l’histoire (Œil, Parigi 1988); e Charles Quint (con Michèle Escamilla, Fayard, Parigi 2000) sono solo alcuni dei suoi titoli più celebri e celebrati.
Alcune cose preziose sono state tradotte anche in italiano, La civiltà dell’Europa dei lumi (Il Mulino, Bologna 1987), L’America e le Americhe. Storia di un continente (Dedalo, Bari 1984), La durata, lo spazio e l’uomo nell’epoca moderna. La storia come scienza sociale (Liguori, Napoli 1983), ma soprattutto L’espansione europea dal XIII al XV secolo (ed. it a cura di Roman Rainero, Mursia, Milano 1979), che sin dal titolo offre una formula gravida di significati.
Suggerisce infatti l’idea di un’Europa in navigazione, prima sulle caravelle casuali ma anche “provvidenziali” di Cristoforo Colombo – come lo stesso Chaunu racconterà in Colomb ou la logique de l’imprévisible (Bourin, Parigi 1993) –, poi a bordo di mille altri navigli, spagnoli, portoghesi, francesi, neerlandesi, inglesi, la prua verso Occidente, in rotta per le Americhe, e da lì un altro balzo verso un occidente ulteriore, cioè il nostro oriente, tornando a casa dopo avere circumnavigato il globo, incontrando, scontrando, evangelizzando e pure, sì, occidentalizzando. C’è insomma pionieristicamente in Chaunu tutta l’idea di un occidente che non è solo un concetto geografico, bensì l’allargamento anche geografico ma soprattutto culturale di quel “continente sui generis” che è l’Europa, fatta essenzialmente, diceva Papa Giovanni Paolo II, di un ethos.
Chaunu si è trovato insomma bene tra intuizioni pontificie, contro-rivoluzionari legittimisti e circoli politico-culturali cattolici. Fantastico, perché lui cattolico non lo era affatto. Era infatti ugonotto, membro cioè di quella minoranza importante di calvinisti francesi che i più ricordano forse solo per la tragica Notte di san Bartolomeo. Chaunu faceva pure il predicatore laico per la Chiesa riformata di Francia, nel tempio di Courseulles-sur-Mer nel Calvados. «Risolutamente di destra e mai disdegnante la polemica», come lo ha definito il quotidiano cattolico democratico La Croix, lo storico-demografo francese è sempre stato un fiero avversario del liberalismo teologico, che ha combattuto alacremente collaborando alla rivista “contro-rivoluzionaria protestante” del pastore Jean Georges Henri Hoffmann Tant qu’il fait jour.
Padre di sei figli, comandante dell’ordine nazionale della Legione d’onore, Chaunu è stato un gran credente e al contempo un grande scienziato, un uomo cioè capace d’interrogarsi seriamente sui disegni divini e sui disegni intelligenti, sul senso della storia e sulle responsabilità degli uomini. Nessuno ne ha del resto scordato le lezioni contenute in piccole perle quali Dal big bang a Dio: il mistero della creazione (Piemme, Casale Monferrato [Alessandria] 1989) e Dio: un’apologia della scienza e della fede (Paoline, Cinisello Balsamo [Milano] 1993), entrambi scritti con Charles Chauvin.
Come pochi, questo storico affascinato dalla demografia ha saputo interpretare i terrori della “peste bianca”, vale a dire le voragini di umanità create dalle ideologie neomalthusiane, sovente mescolate alle ideocrazie totalitarie, che rischiano di travolgere il mondo. Chaunu aveva studiato attentamente il tempo abitato dagli uomini e sapeva bene cosa accade quando gli uomini rischiano di non avere più tempo. Emmanuelle Giuliani, su La Croix, lo ha definito «avvocato della riconquista demografica». Tutto è iniziato con La peste blanche, comment éviter le suicide de l’Occident (Gallimard, Parigi 1976) ed è continuato con Un futur sans avenir: histoire et population (Calmann-Lévy, Parigi 1979), Trois millions d’années, quatre-vingt milliards de destins (Laffont, 1990) ed Essai de prospective démographique (con Huguette Chaunu et Jacques Renard, Fayard, 2003).
Ora, l’ultimo beau geste di Chaunu corona degnamente queste lunghe, felici nozze fra storia e demografia. Per lo studioso il vero nodo da sciogliere, il grande male da esorcizzare, l’origine dei guai della modernità è la Rivoluzione Francese. Lo scrisse apertamente, in pendenza di Bicentenaire, nel suo Le grand déclassement. À propos d’une commemoration (Laffont, 1989) e più di recente lo ha ribadito contribuendo a quel sontuoso (andrebbe tradotto subito) tomo di quasi 900 pagine che è Le livre noir de la Révolution Française (Cerf, Parigi 2008), curato dal padre domenicano Renaud Escande e arricchito tra l’altro di scritti di Jean Tulard, Emmanuel LeRoy-Ladurie, Jean Sévilla e Jean-Christian Petitfils.
Fu infatti scavando nell’abisso giacobino che Chaunu venne colpito da un pensiero improvviso, decidendo così per un supplemento d’indagini. Lo affidò a un giovane allievo, il bretone di Nantes Reynald Secher, classe 1955, che il 14 aprile 1983 discute una tesi di dottorato del terzo ciclo in Scienze storiche e politiche all’università di Parigi IV-Sorbona dal titolo Anatomie d’un village vendéen: La Chapelle-Basse-Mer. Relatore è lo specialista Jean Meyer, e della commissione esaminatrice fa parte lo stesso Chaunu. Lo studio viene poi pubblicato in forma di libro come La Chapelle-Basse-Mer, village vendéen. Révolution et contre-révolution (Perrin, 1986), prefato da Meyer. Nel 1985, quindi, nel medesimo ateneo, Secher sostiene una tesi per il dottorato di ricerca in Lettere e scienze umane dal titolo Contribution à l’étude du génocide franco-français: la Vendée-Vengé, relatore sempre Meyer, con Chaunu e altri nella commissione, fra cui Tulard. Ne scoppia un caso nazionale.
Infatti Secher documenta, per la prima volta in maniera rigorosamente scientifica e utilizzando le armi della statistica messe a punto alla scuola di Chaunu, l’intento lucidamente genocida del giacobinismo francese. Con fredda predeterminazione, i rivoluzionari progettarono, vararono e attuarono il primo genocidio della storia umana, e questo ai danni delle popolazioni dell’Ovest francese, la cosiddetta “Vandea Militare”, rea di essere insorta, dopo anni di angherie, in nome del Dio cattolico spodestato e del re ghigliottinato. Evidentemente non era un derby tra repubblica e monarchia, come bene aveva detto Maximilien Robespierre: si trattava invece di eliminare Luigi XVI onde colpire in effige il suo “mandante”, l’Onnipotente dei cieli, per poi sterminarne quei riottosi suoi devoti che si agitavano in terra.
Secher fornisce le prove: tre leggi votate all’unanimità nel 1793 dal Comitato di salute pubblica e conservate negli archivi, le quali decretavano prima la soppressione fisica della “razza maledetta” vandeana (così la chiamò il boia di Nantes, Jean-Baptiste Carrier), poi persino la sostituzione del nome della regione da Vendée a “vengé”, il dipartimento in cui la repubblica giacobina si è finalmente vendicata, purgando il “morbo”. È un disastro, insomma, il fondamento della democrazia ideologica e relativista che dalla Francia punta a conquistare il mondo.
Succede il putiferio. Se la famosa tesi di Secher viene rubata al suo autore pochi giorni prima di essere discussa (cfr. La thèse de Doctorat sur le génocide vendéen disparait, sul quotidiano di Nantes Presse Océan, del 19 settembre 1985), pure essa attrae l’interesse dell’editoria e finisce pubblicata come Le génocide franco-français: la Vendée-Vengé (PUF, 1986), con introduzioni dei maestri Meyer e Chaunu. In italiano esce con il titolo Il genocidio vandeano (Effedieffe, Milano 1991). Nel suo Le grand déclassement, Chaunu scrive: «Il libro è di Reynald Secher, ma il titolo è proprietà mia, dal 1983».
Osserva acutamente Secher nel suo succcessivo Juifs et Vendéens. D’un génocide à l’autre. La manipulation de la mémoire (Orban, Parigi 1991) che solo rimuovendo dalla memoria collettiva dell’occidente i crimini francesi è stato possibile a un Adolf Hitler ripeterli e aggravarli in Germania a danno di un altro “corpo estraneo”, gli ebrei. Hitler peraltro non fu tanto ingenuo quanto i giacobini, e non lasciò ordini scritti della sua “soluzione finale”.
A quel punto Secher e i suoi maestri vengono accusati di usare il termine “genocidio” in modo anacronistico, applicando al prima ciò che era successo solo poi. Ma Secher scopre, curandone quindi l’edizione assieme allo storico locale Jean-Joël Brégeon, un libello firmato dal protocomunista Jean-Nöel “Gracchus” Babeuf, Du système de dépopulation, ou La vie et le crimes de Carrier. Il compagno Gracchus vi difende i vandeani, inorridito da quella rivoluzione borghese e cittadina che decima impunemente il popolo delle campagne. In italiano il testo viene tradotto come La guerra di Vandea e il Sistema di spopolamento (Effedieffe, Milano 1991). Scritto nel dicembre 1794, fu subito vietato e quindi distrutto, ma ne sopravvissero pochissimi esemplari, alcuni finiti nella lontana Unione Sovietica.
Ecco la prova: Babeuf, contemporaneo ai fatti, forgia addirittura un neologismo per descrivere l’inferno a cui assiste, «dépopulation», termine prima inesistente e però equipollente a “genocidio”. E spiega. I giacobini, già prestissimo in crisi, paventarono un inesistente complotto straniero. S’inventarono la fola degli agenti segreti nascosti sotto il letto per potersi liberamente abbandonare, nel settembre 1792, al massacro (anche eugenetico, dicono diversi specialisti) di folli, prostitute, prigionieri politici e quanti altri capitarono a tiro di mannaia. Poi si rivolsero alla Vandea, che aveva osato obiettare ai lumi della rivoluzione, nel bel mezzo di una situazione eclatante di miseria generalizzata, provocata dalle guerre dichiarate da Parigi alle potenze europee. Impauriti e furibondi, i giacobini invocarono allora, senza leggerlo, il reverendo Thomas Robert Malthus, che di suo aveva predicato solo l’astinenza dalla procreazione onde contrastare la presunta (ma irreale) scarsità di cibo, e decisero l’olocausto. I cattolici monarchici vandeani, vecchi arnesi inutili. La primavera scorsa, nei pressi di Le Mans, gli studiosi hanno scoperto le fosse comuni di uno dei massacri finali di quel genocidio.
Ora il mondo sa, e questo grazie al “vandeano calvinista” Chaunu (che ha toccato di persona il tema in Des curés aux entrepreneurs: la Vendée au XXe siècle, pubblicato nel 2004 dal Centre Vendéen de Recherches Historiques di La Roche sur Yon, ente diretto da Alain Gérard e nato nel 2004 da una idea di Le Roy-Ladurie). Quando lo storico è scomparso, poco più di un mese fa, Nicolas Sarkozy lo ha salutato come «uno dei primi ad aver attirato con forza l’attenzione dell’opinione pubblica francese ed europea sui rischi del declino a cui sta portando la debolezza della demografia europea», rendendo omaggio a un uomo «la cui vita e la cui opera testimoniano il […] combattimento contro il declino demografico».
Marco Respinti