Nella notte fra il 16 e il 17 luglio, più di 60mila russi hanno marciato per una quindicina di chilometri dietro alla croce, dalla casa di Nikolaj Ipat’ev, un mercante di Ekaterinburg, nella regione degli Urali, dove la famiglia imperiale russa era stata sterminata senza pietà dai bolscevichi 99 anni prima, fino a Ganina Jama, una miniera dismessa nei pressi del villaggio di Koptjaki dove i resti dei Romanov furono gettati di nascosto in un pozzo.
Fu Jakov M. Sverdlov (1885-1919) il capo bolscevico che capitanò la fazione di chi volle la morte dello zar Nicola II, della zarina Alessandra Fëdorovna, dello zarevič Alessio e delle principesse imperiali Olga, Maria, Tatiana e Anastasia. In suo onore, nel 1924 la città di Ekaterinburg fu rinominata (e fino al 1991) Sverdlovsk. Il soviet di Ekaterinburg reclamava i prigionieri e Mosca non riuscì a impedirlo. Casa Ipat’ev fu requisita e i Romanov internati il 30 aprile 1918, per 78 giorni. Poi la condanna a morte, la cui esecuzione fu affidata il 17 luglio al funzionario della polizia politica locale Jakov M. Jurovskij (1878-1938), costretto a reclutare ex prigionieri di guerra austroungarici fattisi comunisti per sostituire i bolscevichi russi che si rifiutarono di sparare. Lo zar cadde per primo, seguito dalla zarina. I loro figli vennero fucilati nella mattanza che seguì per ben 20 minuti; furono ammazzati con i membri del seguito, il medico personale di famiglia, il cuoco, la dama di compagnia dell’imperatrice. Tre delle quattro figlie non morirono subito; vennero sventrate dalle baionette in un angolo della stanza. I comunisti ammazzarono anche i due cani di Tatiana e Anastasia. Poi la deportazione dei cadaveri. A metà strada Alessio e Maria vennero bruciati; gli altri, spogliati e fatti a pezzi, furono gettati nel pozzo dei Ganina Jama, poi cosparsi di acido solforico e infine dati alle fiamme. I primi ritrovamenti, accertati con l’analisi del DNA mitocondriale, sono del 1990, pietosamente sepolti nella cattedrale di San Pietroburgo il 16 luglio 1998 con funerale di Stato (presieduto dal primo presidente della Russia post-sovietica, Boris N. Eltsin [1931-2007]). Dopo altri ritrovamenti, il 30 aprile 2008 il governo russo ha comunicato che tutta la famiglia imperiale è stata identificata. Il corteo ha voluto ricordare quei tragici eventi nella preghiera.
Come ogni anno, la cerimonia è iniziata la notte del 16 luglio con una celebrazione eucaristica concelebrata da metropoliti e vescovi in quella che ufficialmente si chiama Chiesa sul sangue in onore di tutti i santi risplendenti nella terra russa (il sangue è quello versato dai Romanov), che, costruita tra il 2000 e il 2003, sta al posto della Casa Ipat’ev (distrutta nel 1977 dall’allora responsabile locale del Partico comunista sovietico, Eltsin). Quindi, alle 3, il corteo sì è incammino per l’ex miniera, fermandosi, attorno alle 7 al pozzo della vergogna al suono delle campane. Lì dal 2001 sorge il monastero dei Santi portatori imperiali della Passione. Al centro c’è il khatolikon, ovvero l’edificio ecclesiastico principale dove si adora l’icona della Madonna Derzhavnaya (sovrana), particolarmente legata alla mistica monarchica russa. Attorno vi sono sette cappelle, ognuna dedicata a uno dei membri trucidati della famiglia imperiale. I Romanov, infatti, sono stati dichiarati martiri e santi dalla Chiesa ortodossa russa nel 2000 (onorati dal calendario liturgico appunto il 17 luglio) in ragione del comportamento cristiano esemplare mostrato durante la deportazione e la prigionia, ma soprattutto, come testimoniano diari e lettere ritrovati dopo la morte, per avere concesso il perdono a carcerieri e carnefici. Lo zar chiese persino di non essere vendicato e rifiutò la via della fuga che, segretamente, gli era stata proposta: temeva che sarebbe costata troppo sangue. Nel monastero (incendiato il 14 settembre 2010) alle 9 è stata celebrata una seconda Messa.
Quando nel 2003 si svolse la prima marcia di preghiera per la famiglia imperiale i partecipanti furono non più di 3mila; oggi, nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre ‒ e dell’apparizione della Madonna a Fatima che mise in guardia dal comunismo, invitando a consacrare la Russia al proprio Cuore Immacolato ‒ sono stati 20 volte tanti. Ovvio, il mondo “illuminato” guarda con alterigia: masse fanatizzate in fuga nostalgica dal presente mesto che vengono soggiogate dal clero bigotto. Ma la supponenza e il dileggio non sono mai riuscite, né in Russia né altrove, a spiegare quell’intreccio di sacro e terreno (non profano), di fede profonda e reverenza per l’autorità, di amore (anche estetico) per l’ordine e credo carnale (nel senso dell’Incarnazione) che regge il mistero sublime dei re terreni, figura del Re celeste dei Re. Dal primo regno cristiano della storia, l’Armenia nel 301, a Costantino, da Teodosio al Sacro Romano Impero, da Giustiniano alla Vienna imperiale fino a Mosca “terza Roma”, con tutti i loro grandi, enormi difetti, i re, le regine e i loro principi sono stati per popoli interi un modo, fragile come tutte le cose umane ma sincero come tutte le cose belle, d’intersecare la terra con il cielo in un segno di croce che fugasse ogni tentazione intimista e riduzionista di null’altro che la fede.
Per questo mistero migliaia e miglia di cristiani hanno dato la vita: non per il re e la sua famiglia, ma per ciò che il libro dei Proverbi (8, 15) sunteggia in modo mirabile: «Per mezzo mio regnano i re
e i magistrati emettono giusti decreti». Dare la vita per Cristo Re ha questo significato, e nessun altro.
I 60mila di Ekaterinburg sono un popolo intero che, fuori tempo e fuori luogo rispetto a ciò che pensa e vuole il mondo di oggi che non sa e non vuole credere più in nulla, testimonia una diversità che fa tremare i polsi. Perché riempie di speranza: non tanto di un revival monarchico, ma della nostalgia di un futuro diverso da come i nemici del Re hanno già programmato debba essere.
Marco Respinti
Articolo pubblicato con il medesimo titolo in La bianca torre di Ecthelion