Da “Libero” del 7 maggio 2017. Foto da GuidaConsumatore
Sembra facile fondare una banca islamica in Italia. Si prende un istituto di credito decotto, nello specifico la Cassa di Risparmio di San Miniato, si procede a una ricapitalizzazione sotto l’occhio vigile della Banca d’Italia, poi la si trasforma secondo i dettami della sharia. È un progetto portato avanti dal gruppo Bci Holding, insieme a una cordata capeggiata dall’ex ad del gruppo Mps e di Deutsche Bank, Vincenzo De Bustis, che punta a raccogliere il risparmio dei musulmani presenti nella Penisola, valutato in 6 miliardi di euro, ma piuttosto refrattario a lasciarsi gestire dagli intermediari classici del mercato finanziario. Il panorama italiano offre già altri veicoli possibili, come le banche venete in difficoltà o Banca Internobiliare, spiega l’ad del gruppo Bci, Massimiliano Salerno, al Sole 24 Ore.
Poiché il sistema bancario convenzionale prevede la corresponsione teorica di un interesse sui depositi e di un tasso reale sui prestiti, la clientela islamica va alla ricerca di prodotti esclusivi, che escludano cioè categoricamente il costo del denaro. Uno sbarramento totale imposto dalla maggioranza degli esperti di diritto coranico, secondo i quali ogni prassi bancaria occidentale ricade sotto la definizione di usura.
Da anni, prima attraverso convegni di studi e successivamente con proposte di legge, si assiste al tentativo di aggirare gli ostacoli all’impiego dei capitali islamici. Benché la questione abbia affascinato anche intellettuali conservatori come Roger Scruton e abbia trovato spazio perfino sull’Osservatore Romano, il muro non è ancora stato abbattuto, anche perché l’integrazione comporta richieste su entrambi i versanti. Primo fra tutti la trasparenza. Nei bilanci delle istituzioni finanziarie islamiche è obbligatoria l’indicazione del versamento della zakat, cioè la tassa per il culto, uno dei pilastri della dottrina coranica. Peccato che, attraverso quel denaro, sia considerato moralmente lecito sostenere anche attività come il jihad, la guerra santa, intesa da alcuni esperti come uno dei doveri di ogni buon musulmano.
Nei tribunali Usa, la questione del finanziamento del terrorismo attraverso l’utilizzo di canali bancari islamici si è già posta in numerose occasioni nell’ultimo decennio e ha portato alla condanna di chi ha consentito che le «elemosine» servissero al sostentamento dei familiari di attentatori suicidi.
Nel resto dei Paesi occidentali prevale un atteggiamento prudente, particolarmente riguardo ai cosiddetti sharia board, cioè gli organismi interni alle banche islamiche che certificano l’ortodossia degli investimenti. Tanto che, all’interno di un’analisi pubblicata sulla propria rivista Questioni di Economia e Finanza nel 2010, la Banca d’Italia affrontava il nodo di «un’eventuale clausola inserita nei contratti che colleghi la validità e vincolatività dell’accordo alla sua conformità rispetto alle norme coraniche, come interpretate da eventuali comitati o consigli tecnico-religiosi», concludendo che quell’elemento «solleverebbe importanti questioni di ammissibilità».
In termini più espliciti, lo studioso Timur Kuran rileva come «i fondatori e i dirigenti delle banche islamiche vedono se stessi come contributori dell’opera di ristabilimento della supremazia dell’Islam nella vita dei musulmani. Alcuni vogliono ristrutturare l’intero ordine sociale secondo i criteri islamici e non solo le relazioni economiche ma anche i ruoli di genere, l’educazione, i mass media, il governo e molto altro», contando anche sul fatto che «il successo dell’islamizzazione in un campo fornisce credibilità ai tentativi di islamizzazione in altri campi». Il Califfato s’instaura anche dagli sportelli bancari.
Andrea Morigi