Da “La bianca torre di Echtelion” del 4 luglio 2017. Foto da Il Giornale
Il 4 luglio 1776, i coloni dell’America Settentrionale si separavano formalmente dall’impero britannico dando vita agli Stati Uniti d’America. Lo fecero con un proclama, la Dichiarazione d’indipendenza, approvata e adottata dal Secondo Congresso continentale nell’edificio di mattoni rossi in stile georgiano che aveva fino a quel momento ospitato l’assemblea coloniale della Provincia della Pennsylvania e che nell’estate 1787 avrebbe ospitato la convenzione incaricata di redigere la Costituzione federale del nuovo Paese.
Il testo della Dichiarazione d’indipendenza fu pressoché totalmente scritto da Thomas Jefferson (1743-1826), poi terzo presidente degli Stati Uniti. Sull’una e sull’altro letteratura è di fatto sterminata quanto lo è la polemica. Da più di due secoli, infatti, di entrambi cercano d’impossessarsi i liberal di ogni risma. Come se Jefferson e la “Dichiarazione” lo consentissero.
Per arrampicarsi così sui vetri, il pensatoio sinistro si attacca da sempre ad alcuni anfratti del pensiero di Jefferson e ad alcune parole della “Dichiarazione”. Ma le seconde sono per lo più dettate dalle circostanze (la necessità del sostegno militare della Francia illuminista nel pieno della guerra antibritannica) e dal modo concreto ‒ limitato ‒ con cui Jefferson mise per iscritto princìpi assai più grandi della sua filosofia e della sua prosa. Quanto al primo, invece, certamente Jefferson è stato “il più progressista” tra i Padri fondatori degli Stati Uniti; ma se i progressisti fossero come lui, il mondo sarebbe più conservatore. Studi imprescindibili sono quelli, in italiano e in inglese, di Luigi Marco Bassani e una chicca è lo studio di Alf J. Mapp Jr., Thomas Jefferson: A Strange Case of Mistaken Identity (Madison Books, Lanham [Maryland] 1987).
Jefferson fu certamente figlio della tradizione laica del giusnaturalismo, ma questo non gl’impedì di segnare punti fermi imprescindibili nell’affermazione del diritto naturale, dei princìpi non negoziabili e della libertà religiosa con le opere che ne derivano: «Noi asseriamo che queste verità sono per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi vi sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità». La Dichiarazione d’indipendenza si apre cioè postulando princìpi non negoziabili: la vita anzitutto; quindi la libertà interiore che ne deriva a immagine e somiglianza creatrice del Creatore; dunque la libertà storica di fare, in piena autonomia, del proprio meglio onde conseguire
la piena felicità nel rispetto della Natura (citata poco prima del documento) voluta da Dio (citato del documento). La migliore ermeneutica di questo pensiero jeffersoniano che fonda e regola lo “spirito americano” è quanto ebbe a dire una volta il presidente Ronald Reagan (1911-2004): «Il sogno americano è che ogni uomo debba essere libero di diventare ciò che Dio intende egli debba diventare».
Ebbene, chi ha capito perfettamente il messaggio è un uomo che parrebbe agli antipodi, geografici e culturali, di Jefferson. Papa san Giovanni Paolo II (1920-2005), che nel 1979, per l’esattezza il 3 ottobre, nell’omelia della Messa celebrata al Logan Circle di Filadelfia, spiegò magistralmente l’“americanità” mostrandosi “un americano migliore” di tantissimi altri.
«Filadelfia è la città della Dichiarazione d’Indipendenza», disse il Pontefice, «quel rilevante documento che contiene una solenne proclamazione della eguaglianza di tutti gli esseri umani, dotati dal loro Creatore di sicuri e inalienabili diritti: la vita, la libertà e la ricerca della felicità, che esprime una “ferma fiducia nella protezione della divina Provvidenza”. Questi sono i sani principi morali formulati dai vostri Padri Fondatori e serbati per sempre nella vostra storia. Nei valori umani e civili che sono contenuti nello spirito di questa Dichiarazione vi sono facilmente riconosciute forti connessioni con fondamentali valori religiosi e cristiani. Anche un sentimento religioso fa parte di questo retaggio. La Campana della Libertà, che io ho ammirato in altra occasione, riporta le parole della Bibbia: “Proclamerete la liberazione nel paese” (Lv 25,10). Questa tradizione lancia per tutte le future generazioni d’America una nobile sfida: “Una Nazione posta sotto la protezione di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”» (n. 2).
E, sempre più precisamente: «Ho ricordato la Dichiarazione di Indipendenza e la Campana della Libertà, due monumenti che esemplificano lo spirito di libertà su cui questo Paese fu fondato. Il vostro attaccamento alla libertà fa parte della vostra eredità. Quando la Campana della Libertà suonò per la prima volta nel 1776, fu per annunciare la libertà della vostra Nazione, l’inizio della ricerca di un comune destino indipendente da qualsiasi coercizione esterna. Questo della libertà è il principio supremo nell’ordinamento politico e sociale, nei rapporti tra il Governo e il popolo, nei rapporti interpersonali. Inoltre, la vita dell’uomo è vissuta anche in un altro ordine di realtà: nell’ordine che investe il suo rapporto con ciò che è obiettivamente vero e moralmente buono. La libertà così acquista un significato più profondo quando è riferita alla persona umana. Riguarda in primo luogo la relazione dell’uomo con se stesso. Ogni persona umana, dotata di ragione, è libera quando è padrona delle sue proprie azioni, quando è in grado di preferire quel bene che è in conformità con la ragione, e dunque con la sua propria dignità umana. La libertà non può mai tollerare alcuna offesa contro i diritti degli altri, e uno dei fondamentali diritti dell’uomo è il diritto di adorare Dio» (n. 4).
Parole ‒ letteralmente ‒ sante. E infatti il Primo Emendamento (1791) alla Costituzione federale statunitense (1789) sancisce non solo quel diritto, ma anche quello alla dimensione pubblica della fede (il «perseguimento della Felicità» della Dichiarazione d’indipendenza). Il Santo Padre ricordava poi che «nella Dichiarazione sulla libertà religiosa, il Concilio Vaticano II stabilì che “l’esigenza di libertà nella convivenza umana riguarda soprattutto i valori dello spirito, e in primo luogo il libero esercizio della religione nella società… E poiché la libertà religiosa, che gli uomini esigono nell’adempiere il dovere di render culto a Dio, riguarda l’immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e della società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo” (Dignitatis Humanae, 1)» (n. 5). Una volta in più è bene e bello ricordare che il Magistero conciliare sulla libertà religiosa si fonda (anche) sull’eroismo controrivoluzionario del Messico martire dei Cristeros. Diceva infatti san Giovanni Paolo II “l’americano” che «la libertà non può […] essere capita se non in relazione alla verità rivelata da Gesù Cristo, e proposta dalla sua Chiesa, né essa può essere presa a pretesto per l’anarchia morale, perché ogni ordine morale deve rimanere legato alla verità» (n. 6). Contro le false pretese del pensiero liberal, infatti, «le norme morali non sono d’ostacolo alla libertà della persona […]; al contrario, esse esistono precisamente per quella libertà, dal momento che esse sono date per assicurare il retto uso della libertà. Chiunque rifiuta di accettare queste norme o di agire in conformità con queste, chiunque cerca di liberare se stesso o se stessa da queste norme, non è veramente libero. Libera è invece la persona che regola il proprio comportamento in accordo con le esigenze del bene oggettivo. […] La coesione di libertà ed etica ha inoltre le sue conseguenze nella ricerca del bene comune nella società e per l’indipendenza nazionale che la Campana della Libertà annunciò due secoli or sono» (ibidem). Per questo gli americani non ce la fanno a non dire «God bless America».
Marco Respinti