Pietro Cantoni, Quaderni di Cristianità, anno I, n. 1, primavera 1985
Joseph Ratzinger, La festa della fede. Saggi di Teologia liturgica, Jaca Book, Milano 1984, pp. 144, £ 6.500
A vent’anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II, in un clima di bilancio, anche il capitolo “liturgia” merita la dovuta attenzione. Un’attenzione prioritaria, anzi, se si vogliono rispettare le precedenze suggerite dal Concilio stesso: infatti, la costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium è stato il primo documento discusso e promulgato dall’assise ecumenica.
Il cardinale Joseph Ratzinger, attuale prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, ha già espresso in diverse sedi il suo pensiero sul “problema Concilio”. Esso si può forse sintetizzare così: distinzione tra “Concilio‑documenti” ‑ atto di Magistero che si inserisce nella Tradizione della Chiesa, a cui è dovuto un “religioso ossequio della volontà e della intelligenza” (Lumen gentium, n. 25) ‑ e “Concilio‑fatto storico”. Se sul primo il giudizio è sostanzialmente positivo, sul secondo si fa più problematico: “I risultati sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti […]. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci siamo invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è sviluppato in larga misura proprio sotto il segno di un richiamo al Concilio e ha quindi contribuito a screditarlo per molti” (“Ecco perché la fede è in crisi”, intervista a cura di Vittorio Messori, in Jesus, anno VI, n. 11, 11‑ 11‑ 1984, p. 70).
Tale pensiero comporta, ancora, la distinzione tra “Concilio” e “applicazione dei Concilio”. L’atmosfera dell’applicazione si è trovata abbondantemente viziata da un “Konzils‑ Ungeist”, da un “antispirito del Concilio”, per cui si può dire che “la vera recezione del Concilio non è ancora assolutamente incominciata” (Theològische Prinzipienlehre, Wewel, Monaco 1982, p. 391).
Anche la liturgia postconciliare non sfugge a questa c risi. “Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste”, dice la Sacrosanctum Concilium al numero 8. Un confronto tra questa visione ideale e certa prassi liturgica che è sotto gli occhi di tutti è tale da rendere piasticamente la problematicità di una situazione:. banalità, sciatteria, depayperamento simbolico ed estetico, clima da happening sono le caratteristiche ricorrenti di un certo modo di fare liturgia. Si tratta di riflettere su questi dati di fatto per ricercarne le cause.
La festa della fede. Saggi di Teologia liturgica non è un trattato di liturgia, ma offre spunti di “teologia della liturgia”, e sono spunti essenziali e sintetici, logicamente coordinati tra loro e con uno straordinario mordente sulla situazione attuale. Si tratta, infatti, di una raccolta di studi, dei quali alcuni inediti e altri la cui prima pubblicazione si snoda in un arco di tempo che va dal 1974 al 1979 (Das Fest des Glaubens. Versuche zur Theologie des Gottesdienstes, Johannes, Einsiedeln 1981, pp. 36). Tale periodo vede il passaggio di Joseph Ratzinger dall’attività accademica all’impegno pastorale come arcivescovo di Monaco, capitale della nativa Baviera, carica alla quale è eletto il 24 marzo 1977. La sua lunga carriera teologica, iniziata nel seminario di Frisinga, prosegue alle università di Bonn, Munster, Tubinga, Ratisbona, prima di essere chiamato a sostituire il cardinale Julius Dopfner appunto a Monaco, e ha come due riferimenti fondamentali sant’Agostino ‑ a cui nel 1954 dedica Volk und Haus Gottes in Augustins Lehre von der Kirche (trad. it., Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano 1971) ‑ e san Bonaventura, che studia in Die Geschichtstheologie des heiligen Bonaventura (Schnell & Steiner, Monaco 1959). Il teologo bavarese rivolge il suo interesse a una vastissima gamma di temi ‑ come episcopato e primato, eucaristia, storia e dogma, rivelazione e tradizione, fede e creazione, escatologia, ecc. ‑ che convergono però tutti in un fuoco, cioè la Chiesa, soprattutto con Das neue Volk Gottes. Entwurfe zur EkkIesiologie, del 1969 (trad. it., Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana,, 28 ed., Brescia 1972).
Nell’opera in esame il primo tema di riflessione è la preghiera: la liturgia, infatti, è la preghiera ufficiale della Chiesa. Senza preghiera non vi è liturgia. “La prima caratteristica della fede cristiana è di essere una fede in Dio. La visione cristiana di Dio, inoltre, è che egli è un Qualcuno che parla personalmente e al quale l’uomo può parlare” (p. 18). In direzione opposta si muove l’immanentismo moderno che dissolve il “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe” in una anonima e impersonale “trascendenza”. Una espressione emblematica di questo indirizzo ci è offerta da G. Hasenhuttl: “Dio è predicato dell’uomo, espressione dell’uomo e precisamente nell’area della comunicazione relazionale” (p. 18, nota 9).
Joseph Ratzinger mette in stretto rapporto il dissolvimento della preghiera con la negazione della metafisica e della creazione: “Chi nega la metafisica, nega la creazione e nega così lo stesso concetto cristiano di Dio” (p. 21): il concetto, cioè, di un Dio personale che si rivolge a noi e a cui ci si può rivolgere. “Questa cancellazione della fede nella creazione ‑ poi ‑, considerata dal punto di vista storico, è da qualificare come strettamente gnostica” (p. 22, nota 12).
Il mondo è frutto della necessità, del caso oppure di un libero atto di amore? Solo in questa seconda ipotesi la preghiera ha un senso (cfr. p. 23). La risposta naturale e cristiana alla obiezione immanentistico‑gnostica si ritrova, dunque, in una corretta nozione di Dio, personale, libero e creatore e, in ultimissima analisi, nella sua intima vita trinitaria: “La fondamentale possibilità che l’uomo possa parlare con Dio dipende dal fatto che Dio medesimo è in se stesso Discorso” (p. 28), è Verbo che procede dal Padre e si rivolge al Padre per tutta la eternità.
Un secondo problema, dopo quello relativo a una adeguata fondazione teologica della preghiera, riguarda la “forma” e il “contenuto” della celebrazione eucaristica. Questa problematica fa entrare forse più concretamente nella realtà della vita liturgica.
Che cosa è la messa? E, sulla base della risposta a questo quesito, qual è il modo migliore di celebrarla, facendo risaltare ciò che essa è?
Una “disputa oramai quasi dimenticata avvenuta negli anni tra le due guerre” (p. 37) fornisce all’autore il punto di partenza per la sua riflessione. Da quella disputa, infatti, si è fatta strada la convinzione che “la forma ultima dell’Eucarestia è il convito” (p. 39). Infatti, “la celebrazione eucaristica esemplare, l’istituzione dell’Eucarestia ad opera dello stesso Gesù ci è descritta in modo relativamente esteso nel Nuovo Testamento; essa avvenne il giovedì santo nella cornice dell’ultima cena” (p. 39), cioè di un convito. Che cosa si può obiettare a una affermazione così vera e così stringente?
Leggendo queste pagine mi è tornato alla mente un ricordo personale. Avevo richiamato un amico perché era rimasto seduto durante la consacrazione. Ottenni questa semplice ‑ troppo semplice ‑ risposta: “Ma gli Apostoli nell’ultima cena erano seduti!”. Se avessi voluto cavillare avrei potuto replicare che ‑ casomai ‑ si doveva stare sdraiati, in base all’uso greco‑romano allora diffuso anche fra i giudei … Ma certamente quella risposta mi sconcertò.
Non è possibile riferire in sede di recensione tutti i passaggi della serrata e densissima argomentazione storico‑dottrinale del cardinale Ratzinger: mi limito al passaggio essenziale, che vuole chiarire il corretto rapporto tra Antico e Nuovo Testamento.
Quanto Gesù ha fatto nel quadro dell’ultima cena, istituendo la Eucaristia, è qualcosa di nuovo, di distinto e di ripetibile in modo separato dal vecchio contesto. “La nuova preghiera di Gesù si trova ancora all’interno della liturgia giudaica. Ci troviamo ancora prima della crocifissione anche se, per così dire, essa interiormente ha inizio da questo momento. La separazione tra Gesù e la comunità giudaica non è ancora compiuta, cioè la Chiesa non è ancora presente in quanto Chiesa: l’edificio storico “chiesa” in senso stretto ha origine solamente dal fallimento del tentativo di salvare l’intero Israele. Poiché non esiste ancora il cristianesimo come entità indipendente, ma solo in una forma storicamente ancora aperta all’interno del giudaesimo, non può esserci neppure una forma liturgica autonoma e specificamente cristiana. Questo ci porta ad una constatazione fondamentale il cui travisamento è il vero e proprio errore di tutti i tentativi di derivare la forma liturgica cristiana con immediatezza acritica dall’ultima cena. Infatti noi dobbiamo ora affermare: l’ultima cena è certamente il fondamento di ogni liturgia cristiana, ma essa stessa non è ancora una liturgia cristiana […]: l’ultima cena fonda il contenuto dogmatico dell’Eucarestia cristiana, ma non la sua forma liturgica” (p. 45).
Cioè, se vogliamo sapere che cosa è l’Eucaristia, dobbiamo riflettere sulle parole della istituzione ‑ naturalmente alla luce di tutta la Tradizione della Chiesa ‑, ma non possiamo dedurre senz’altro dal modo con cui Gesù ha proceduto in quel contesto come celebrare oggi la Eucaristia.
Questo non significa assolutamente escludere l’elemento del pasto: “L’Eucarestia è anche (non esclusivamente) la preghiera conviviale della santa cena. Ma […] la simbologia del pasto è ordinata e subordinata verso qualcosa di più ampio” (p. 42).
Joseph Ratzinger vede ‑ basandosi soprattutto sugli studi di L. Lies e G. Gese il gesto di Gesù nell’ultima cena come gesto di adorazione, lode e ringraziamento ‑ eulogia‑eucaristia ‑ e in stretta connessione con il sacrificio della “toda”, cioè con il sacrificio di ringraziamento. Dunque, secondo G. Gese, “se un uomo è salvato da un pericolo mortale, da una malattia micidiale e da una persecuzione che ne mina l’esistenza, egli festeggia con un rito sacrificale di ringraziamento questo divino salvataggio come una neofondazione dell’esislenza” (p. 60): “la loda comprende non soltanto un sacrificio cruento di carni, ma anche uno incruento di pane” (p. 61).
Il gesto di Gesù non sarebbe altro che “la toda del Resuscitato” (p. 62), anticipata nell’ultima cena per essere poi ripetuta dalla Chiesa dopo la sua immolazione sul Calvario e la sua resurrezione; con la differenza fondamentale che ‑ sempre secondo G. Gese ‑ “nella vecchia loda il salvato offriva un animale da sacrificio per sé e per la comunità. Ma il Resuscitato ha dato se stesso; il sacrificio è il suo stesso sacrificio” (p. 62).
Dunque, la struttura fondamentale della Eucaristia sarebbe quella di una preghiera di benedizione e di un sacrificio incruento: il problema è relativo alla “forma” della celebrazione eucaristica, non direttamente al “contenuto”, che il Concilio di Trento ha definito un sacrificio vero e proprio, anzi, lo stesso sacrificio del Calvario.
Al di là però della tesi, certamente suggestiva, sulla origine storica della forma della celebrazione eucaristica, un dato fondamentale è di nuovo messo in luce: questa forma non può essere disgiunta dal contenuto, ma lo deve esprimere. li segno del sacrificio deve essere, a sua volta, sacrificale.
La ricerca sulla forma della celebrazione eucaristica porta naturalmente a indagare sulle origini profonde dell’attuale crisi liturgica. Essa poggia ‑ secondo il porporato ‑ sul fatto che si fronteggiano due concezioni: la liturgia come adorazione di Dio e la liturgia come intrattenimento dell’uomo. In quest’ultima concezione la liturgia si esaurisce in “celebrazione comunitaria, un atto in cui la comunità si forma e si sperimenta come comunità . Di fatto in questo modo la liturgia sia nella sua forma tipica che nell’atteggiamento spirituale retrocede nella prossimità di un party. Ciò è dimostrato, ad esempio, dalla crescente importanza riservata alla parola di saluto e di commiato come anche dalla ricerca di elementi che abbiano valore di intrattenimento. L’effetto di intrattenimento diventa anzi criterio di una “riuscita” celebrazione liturgica che perciò si deve basare sulla “creatività”, cioè sulle trovate dei suoi organizzatori” (p. 68).
Ma tutto questo, si obietterà, non è solamente la logica conseguenza di quella “participatio actuosa”, “partecipazione attiva”, voluta dal Concilio? Non è, anzi, proprio questa “participatio actuosa” il nucleo fondamentale del rinnovamento liturgico? L’autore non nega la importanza di questo concetto, ma propone un suo approfondimento, scartando ogni interpretazione semplicistica e meccanica. Anzitutto, “la preghiera comunitaria, liturgica deve mirare a che si preghi veramente, cioè che noi non ci parliamo l’un l’altro, reciprocamente, ma parliamo invece a Dio e davanti a Dio; in questo caso ci parliamo anche reciprocamente nel modo migliore e più profondo. Questo significa che nel campo della partecipazione liturgica che nella dimensione più profonda dovrebbe essere participatio Dei, partecipazione a Dio e quindi alla vita, alla libertà, l’interiorizzazione ha la precedenza” (p. 76‑77). Questa interiorizzazione non si ottiene ricorrendo freneticamente al cambiamento, presentando “sempre nuovi progetti di strutture liturgiche”, né con “il profluvio di spiegazioni che distrugge la liturgia e che poi non spiega nulla” (p. 77).
Tutto questo poggia su un “unilaterale predominio della parola che purtroppo sembra essere in parte accolto anche dai libri liturgici ufficiali” (p. 78).
Partecipazione può essere ottenuta mediante il silenzio ‑ “benché si contrapponga alle teorie predominanti io vorrei aggiungere che anche l’intero canone non deve essere necessariamente sempre recitato ad alta voce” (p. 78) ‑; mediante la eloquenza dei gesti, di cui uno dei più importanti per esprimere l’adorazione “rischia sempre di più di sparire: l’inginocchiarsi” (p. 80); mediante l’ascolto di una bella esecuzione corale (cfr. p. 113).
Purtroppo la traduzione italiana del volume del cardinale Ratzinger omette senza dame notizia, come almeno viene fatto per un altro “taglio” a p. 56, un intero capitolo, Liturgie‑ wandelbar oder unwanderbar, “Liturgia: mutabile e immutabile?”, dove queste riflessioni ‑ assieme a importanti considerazioni sulla cosiddetta “Messa di san Pio V” e sulla riforma liturgica ‑ sono ulteriormente sviluppate.
“Va detto ai “tridentini” ‑ osserva l’autore ‑ che la liturgia della Chiesa è vi va come la Chiesa stessa, quindi sottoposta ad un processo di maturazione in cui sono possibili inserimenti più o meno importanti. […] Nello stesso tempo e pur riconoscendo tutti i pregi del nuovo messale, si deve criticamente constatare che è stato edito come se fosse un libro elaborato da esperti, e non la fase di una crescita continua. Cose simili non sono mai successe in questo modo; esse contraddicono il modello dello sviluppo liturgico” (ed. tedesca, p. 77).
Per tornare alla partecipazione, spesso, alla fondamentale osservazione sul carattere prioritario che deve avere in essa la interiorità, si obietta che è legge della liturgia manifestare nel segno, ciò che è nascosto: è certamente vero, ma il problema non sta nel sottovalutare la partecipazione esteriore, ma nel constatare che essa ha valore solo quando esprime qualcosa di interiore e nel valutare se questa partecipazione interiore è ottenibile a partire dall’esterno, sollecitando risposte, gesti uniformi e creando artificialmente un clima “comunitario”.
Inoltre, anche a proposito di espressione esteriore non si deve dimenticare che “cattolicità non significa uniformità. […] Non è detto che ognuno debba essere tutto; tutti insieme soltanto costituiscono il complesso. Il pluralismo postconciliare si è dimostrato stranamente uniformante per lo meno in un punto: esso non intende consentire più una determinata elevatezza di espressione” (p. 112).
Il fatto ha avuto conseguenze particolarmente sgradevoli in campo musicale. Si è detto che “la liturgia esiste per tutti” (p. 111), che tutti devono partecipare. Dunque, non si dà più una “musica sacra”, che implica un livello di esecuzione troppo elevato. E’ consentita soltanto una “musica d’uso”, alla portata della possibilità di tutti e del gusto di tutti. Così, per esempio, l’impiego di una schola cantorum che esegua pezzi di alto livello artistico, a cui l’assemblea partecipa “solo” con l’ascolto, è stato tacciato di non essere liturgico.
A questo modo si è fatto “tristemente percepibile” un “pauroso impoverimento”. La liturgia postconciliare ‑ da questo punto di vista ‑, secondo il cardinale Ratzinger, incute “i brividi” o provoca “la ‘ noia”, “con il suo gusto per il banale e la sua mediocrità artistica” (p. 88).
Anche a questo riguardo occorre sottolineare qualcosa di difficilmente “visibile”, ma di assolutamente reale e anche, in qualche modo, percepibile: “la potenza unificante della audizione comune, della comune meraviglia, della comune commozione in una profondità negata alla parola” (p. 89), in presenza di una musica che eleva lo spirito e lo porta alla lode di Dio. Infatti la musica non è qualcosa di “neutro” il cui accoglimento o meno nell’uso liturgico debba ubbidire soltanto al criterio del gusto della platea, ai fini dei suo intrattenimento. Vi è una musica elevante che porta alla “spiritualizzazione dei sensi”. e una musica che tende, in molti casi – in particolare quella ritmica ‑, ad “avviluppare lo spirito nei sensi”, “diretta non alla purificazione, ma allo stordimento” (p. 108).
Certo, “è impossibile indicare a priori criteri fissi di ciò che la spiritualizzazione musicalmente esige” (p. 109), però possono essere almeno identificati sicuri criteri negativi nei confronti di certe forme aberranti. In ogni caso “la Chiesa non deve accontentarsi facilmente; dev’essere un focolare del bello, guidare la lotta per la “spiritualizzazione”, senza la quale il mondo diventa “il primo cerchio dell’inferno”. Perciò il problema dell’”adatto” deve essere anche e sempre il problema del “degno” e la provocazione a cercare questo “degno“”(p. 114).
Una parola ancora sul significato della festa dei Corpus Domini. Come mai è presente un problema così specifico e così particolare in un testo che vorrebbe fornire elementi di principio di teologia liturgica? Certamente perché il Corpus Domini ha un carattere emblematico. Il suo aspetto trionfale. di adorazione aperta, pubblica, corale, sociale, costituisce la contraddizione più palese di quell’indirizzo antropocentico e illuministico che ha permeato tanto in profondità certo rinnovamento liturgico.
Per il cardinale Ratzinger questa festa è tutta da riscoprire e da valorizzare. La processione del Corpus Domini è “il corteo trionfale del Signore, che noi riconosciamo anche pubblicamente come tale e al quale trasferiamo la proprietà delle nostre vie e delle nostre piazze” (p. 124).
Un riflesso di questa contrapposizione si ritrova anche a proposito del problema relativo all’“orientamento della celebrazione”. L’alternativa è stata spesso arbitrariamente semplificata in una celebrazione “al tabernacolo” o addirittura “alla parete” e una celebrazione “verso il popolo”. In realtà, l’autore mostra come l’uso tradizionale ha il senso di un “rivolgersi conforme del sacerdote e del popolo verso il comune allo di adorazione trinitaria” (p. 130). Punto di riferimento era l’oriente, e questo era contrassegnato originariamente con una croce sulla parete orientale. La croce aveva un prevalente significato escatologico: il Signore è asceso al cielo verso oriente e da oriente deve ritornare. Un residuo, ben presto non più compreso con questa profondità, di tale orientamento è rimasto fino ai nostri giorni la croce sull’altare.
La nuova disposizione, nelle sue migliori intenzioni, vuole essere un avvicinamento comunitario al Signore, centro della celebrazione, ma, purtroppo, “l’opinione generale non segue certamente questa linea” (p. 132). Essa insiste piuttosto sul fattore comunitario in sé, così che vi è il pericolo di un corto circuito che ponga la comunità al centro, come realtà autosufficiente e senza quel riferimento trascendente al Signore, che solo dà senso alla celebrazione liturgica.
Il cardinale Ratzinger traduce questa constatazione in una proposta concreta: “Anche nell’attuale orientamento della celebrazione ‑ che peraltro non corrisponde ad “alcun ordine lassativo” ‑, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui, il trafitto” (p. 134).
Si tratta di una proposta autorevole e piena di buon senso teologico, che gli interessati farebbero bene a prendere nella dovuta considerazione.
La raccolta di saggi di Joseph Ratzinger costituisce, complessivamente, un contributo molto importante, degno di attenta meditazione in tutte le sue parti. Anche a coloro che hanno reagito davanti al dissesto liturgico di questi anni fornisce ragioni non superficiali perché il problema non venga ridotto a una contrapposizione “tra i libri vecchi e nuovi” (p. 80, nota 8). Non si tratta soltanto di una questione di libri liturgici ‑come non è solo un problema di “prima” e di “dopo” il Concilio ‑, anche se rimane aperta “la questione autocritica se i nuovi libri liturgici sono più deboli dei vecchi per cui si deve arrivare ad una integrazione dell’antica eredità” (p. 80, nota 8).
Il recente indulto, che concede la possibilità di usare il vecchio messale e che ha provocato tanto farisaico scandalo, è patrocinato dal cardinale Ratzinger proprio in questo libro (cfr. p. 80), e si situa certamente in questa linea.
La traduzione dell’opera ‑ oltre al taglio arbitrario già segnalato di un intero capitolo, che va da p. 71 a p. 85 della edizione tedesca ‑ risulta erronea in diversi luoghi. A p. 49, a richiedere precise condizioni di ammissione non è, evidentemente, una comunità “illimitata” ma, appunto, “definita”, “umgrenzte Gemeinschaft”. A p. 92 san Gerolamo non è un esegeta “discutibile” (!) ma “polemico”, “streitbar”. A p. 141 gli uomini non partecipano alla “concelebrazione” dell’Eucaristia ricevendo il corpo dei Signore, ma piuttosto “partecipano insieme pienamente”, “voll mitfeiern” a essa. Il termine “concelebrare” ha, infatti, un senso tecnico ben preciso che si riferisce al sacerdozio ministeriale e si rende in tedesco con “konzelebrieren”. Nelle citazioni ho talora modificato la traduzione.
In un punto mi permetto di dissentire dall’autore, quando (cfr. pp. 101‑102) sembra fare carico a san Tommaso della deviazione razionalistica che pone la educazione dell’uomo al centro della prassi liturgica. Il principio secondo cui “la lode orale è necessaria non per Dio stesso, ma per chi lo loda” (II‑II, q. 91, a. I resp.) legittimerebbe un certo “utilitarismo liturgico”. In realtà, il pensiero di san Tommaso mi pare ben altrimenti profondo. Il culto di lode è tutto essenzialmente orientato a Dio, ma non nel senso che soddisferebbe a un bisogno di Dio; è per Dio, ma non a vantaggio di Dio. E’ piuttosto a vantaggio dell’uomo che, proprio nell’uscire fuori di sé e nell’orientarsi a Dio, realizza la ordinazione profonda dei suo essere. La prospettiva razionalistica, invece, riduce la lode, e la preghiera in genere, soltanto a soddisfacimento di un bisogno dell’uomo, con la inevitabile conseguenza di appiattirla e di favorire la scomparsa di ogni prospettiva sacrale.
Pietro Cantoni
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