Da “La bianca torre di Echtelion” del 18 maggio 2017. Foto da The Daily Wire
Difficile trattenere le risa davanti al gran vociare di una “Russian Connection” fra l’entourage del presidente Donald J. Trump e apparati di Mosca. Il mondo dei “gialli” è pieno di storie in cui gl’inquirenti restano paralizzati dalla mancanza di un movente utile a spiegare un delitto, ma quel che nella “Russian Connection” manca è addirittura il delitto stesso. Che uomini politici americani vengano “processati” per avere incontrato o parlato con personale diplomatico straniero regolarmente accreditato sul suolo americano è per lo meno surreale. Adesso però la vicenda sale di livello e nell’occhio del ciclone finisce nientemeno che il presidente stesso.
Tutto sta in un reportage di The Washington Post. Fantastica, sì, la stampa americana, che da sempre fa il cane da guardia del potere, pubblicando i fatti separati dalle opinioni; un po’ meno la stampa americana che fa politica al posto dei politici (qualcuno ha visto i Democratici scomparsi dal radar?), pubblicando opinioni a cui vengono piegati i fatti. Afferma dunque The Washington Post che mercoledì 10 maggio Trump avrebbe rivelato informazioni altamente riservate, ricevute dai servizi segreti di un Paese alleato, al ministro degli Esteri russo, Sergej V. Lavrov, e all’ambasciatore di Mosca a Washington, Sergej I. Kisljak, facendo il nome di una città occupata dall’ISIS da cui verrebbero minacce all’aviazione civile: bombe raffinatamente camuffate dentro computer portatili.
Ora, il presidente degli Stati Uniti ha piena diponibilità di fonti d’intelligence come queste ed è sua facoltà condividerle per giusta causa con altri Paesi. Non è forse un motivo ricorrente quello della necessità di condividere tra Paesi diversi quanto più accuratamente e tempestivamente possibile informazioni utili a prevenire e a combattere il terrorismo? Ed è questo che Trump ha fatto: ha condiviso con Mosca informazioni utili a quello scopo. Che Trump veda infatti in Vladimir Putin un alleato strategicamente importante e persino necessario per sconfiggere ISIS non è certo né un mistero né una notizia di adesso. Certamente è legittimo farsi domande serie su Putin e sul regime che egli manovra in Russia, ma questo potrebbe non interessare a Trump (soprattutto se la sua attenzione rispetto alla Russia resta monopolizzata dalla questione terrorismo), e di ciò va preso atto.
La questione, infatti, non è la condivisione d’informazioni delicate: esattamente un anno fa, lo stesso The Washington Post scriveva che proprio questo voleva fare Barack Obama, offrire ai russi informazioni strategiche per meglio contrastare assieme il terrorismo. La questione è quindi solo se il farlo mette a rischio l’incolumità della fonte. Questo sì potrebbe costituire reato.
Ma se Tump ha certamente fatto la prima cosa (ha condiviso informazioni antiterrorismo importanti con la Russia alleata degli Stati Uniti sul fronte antiterrorismo), altrettanto certamente non ha fatto la seconda (nel condividere informazioni antiterrorismo importanti con la Russia alleata degli Stati Uniti sul fronte antiterrorismo non ha messo a rischio l’incolumità della fonte). Il reportage di The Washington Post insinua sottilmente però il contrario. Il quotidiano ha il pudore di non dire che Trump avrebbe rivelato l’identità della fonte o il modo specifico con cui si è entrati in possesso dell’informazione in questione (modo che avrebbe potuto essere tanto specifico da comportare l’immediata identificazione della fonte, ottenendo lo stesso dannosissimo risultato), ma sostiene che nondimeno il presidente avrebbe fatto mossa equipollente comunicando il nome della città dove l’intercettazione è avvenuta e dunque mettendo di fatto a repentaglio gl’informatori là attivi sotto copertura. Tirata per i capelli. Motivo per cui è sceso in campo direttamente il Consigliere per la sicurezza nazionale, Herbert R. McMaster, che ha definito «falso» il reportage di The Washington Post giacché Trump non ha affatto «reso note» né alcuna «fonte o metodo d’intelligence» né «operazioni militari che già non fossero pubblicamente note». Tutto insomma perfettamente appropriato. E legittimo. Perché proprio questo è il punto. Per l’ennesima volta, la gogna mediatica sta cercando d’insinuare nell’opinione pubblica la “prova provata” dell’illegittimità della presidenza Trump a motivo dell’illegalità con cui essa si muoverebbe e da sempre si è mossa.
Ancora una volta, però, si tratta solo di un processo farsa, perché, appunto, manca il delitto. Trump è accusato di avere fatto il nome di una città che non ha mai nominato. Lo si vuole processare come un criminale per questo? Tra l’altro, l’affaire della città misteriosa è del 10 maggio; pochino per sostenere che da più di un anno Trump tramerebbe nell’ombra con Putin, ma abbastanza per parlare di arrampicata sugli specchi.
Come più volte detto, la volontà di Trump di trovare toni concilianti con la Russia non è né un mistero né una novità. Che questo non significhi appiattimento su Mosca lo dimostra bene la politica trumpiana contro (piaccia o no) il regime siriano, alias la Russia stessa. Del resto, illustra Andrew C. McCarthy su National Review, le leggerezze di politica estera accumulate dai Democratici nell’era Obama sono state sempre perdonate in fretta.
D’altro canto non ha torto nemmeno la Destra che aggrotta le ciglia. Ribadito che in quanto fa Trump non vi è nulla d’illegale o d’illegittimo, resta la questione dell’opportunità. E dei modi. Trump, cioè, esterna, troppo; parla a braccio, troppo; twitta, troppo; insomma si tiene troppo poco. E questo imbarazza sempre più. La Destra gli ha dato carta bianca per fare quel che va fatto dopo otto anni di disastro Obama e scampato pericolo Clinton, ma sarebbe ora che qualcosa di sostanziale accadesse. Segnali decisivi ce ne sono stati molti; il guaio è che sono ancora solo segnali.
Post scriptum. Mentre l’unico verso “Russiagate” non indagato e non punito resta per ora quello che ha visto l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton cedere a scopo di lucro all’ente statale russo per l’energia atomica, Rosatom, il 20% dell’uranio statunitense, sempre Andrew McCarthy, sempre su National Review ci ricorda finalmente perché l’FBI di James B. Comey non abbia mai messo sotto inchiesta la Clinton per lo scandalo delle email. Perché farlo avrebbe voluto dire mettere anzitutto sotto inchiesta Obama, che con lei corrispondeva sotto pseudonimo attraverso un servizio di posta elettronica non governativo e non sicuro. Non solo cioè Obama ha commesso le stesse chiamiamole leggerezze di cui è accusata la Clinton, ma lo faceva proprio con lei. Che si scrivevano?
Marco Respinti