Da La bianca Torre di Ecthelion del 26/12/2017. Foto da articolo
Dal 1641, il Giappone è stato il “Sakoku”, ovvero “il Paese blindato”. Nessuno entrava, nessuno usciva. Gli stranieri erano i nemici, e ovviamente i cattolici erano per definizione gli “stranieri”, quelli “al soldo” degl’intrighi vaticani: i missionari, ma lo stesso anche i convertiti giapponesi. Anzi, questi ultimi erano doppiamente colpevoli perché traditori della patria, dell’imperatore, della religione dei padri, dell’etica del bushido. Fa niente se tra i convertiti al cattolicesimo vi erano alcuni tra i migliori samurai che diedero la vita per non cedere alla tracotanza degli shōgun e se pure chi non era samurai viveva la fede cristiana con il coraggio di un leone pagandola ugualmente con la vita propria e dei propri cari. Del resto, a qualcuno il muro giapponese era concesso penetrarlo: alcuni selezionatissimi partner commerciali per lo più regionali più i calvinisti dei Paesi Bassi, che nelle persecuzioni anticattoliche voltarono, diciamo così, il capo altrove. I veri nemici degli shōgun torturatori erano infatti la Spagna e il Portogallo cattolici, nemici anche per i calvinisti fiamminghi. A quest’autarchia insanguinata misero poi fine nel 1853 le cannoniere del commodoro statunitense Matthew Perry (1794-1858).
Per oltre due secoli, dunque, essere cattolici in Giappone ha significato martirio e clandestinità. Ma anche quando la persecuzione è gradualmente terminata, i cattolici giapponesi sono rimasti una minoranza per lo più estraniata. Immaginiamoci dunque il brivido che ha potuto percorrere un cattolico del Sol Levante nell’anno di grazia e tondo tondo 1900, il giro di boa del secolo, di quel secolo che si sarebbe poi rivelato buio e tempestoso, il più truce di tutta la storia ma che allora si ubriacava nel mito bohémien della Belle Époque come se non ci dovesse essere un domani, immaginiamoci appunto il brivido di un cattolico giapponese di un tempo così nel trovarsi tra le mani le pagine di un racconto di Natale, un racconto cattolico di Natale (oramai bisogna specificarlo), per di più non d’importazione, ma autenticamente giapponese, scritto a caratteri verticali nella lingua degli stessi shōgun persecutori, firmato da un autore cattolico sì e giapponese pure. Cose da banditi, insomma, e al tempo stesso di una consolazione spirituale immensa. Un fremito da mettersi a lacrimare di commozione e di gioia. Ebbene, la cosa è una bella favola di Natale sì, ma assolutamente vera. Lo racconta il portale d’informazione Nippon.com, che viene pubblicato in sette lingue, con un articoletto straordinario.
Nel 1900, appunto, Shindō Nobuyoshi pubblicò Santa Kurō, uno dei primi libri giapponesi su Babbo Natale. Sì, Babbo Natale, noto pure come Santa Claus, che però è ed è sempre stato solo san Nicola, il generoso vescovo amico dei più deboli e indifesi tra i primi i bambini e di cui la tradizione cattolica ha fatto un simbolo gioioso dell’Avvento. Scrive il portale Nippon.com che «la narrazione semplice e la forte tematica cristiana» di Santa Kurō «[…] si pone in netto contrasto rispetto al modo ampiamente secolarizzato con cui il Giappone vive il Natale oggi».
Si tratta di un racconto ambientato nel Giappone rurale di quegli stessi anni, quello del periodo Meiji (1868-1912) succeduto al tempo del “Paese blindato”, un’epoca di mutamenti profondi. Gli Hayashi sono un famiglia di cattolici devoti, il papà, la mamma e il piccolo Mineichi di otto anni. Vivono sui monti della prefettura di Nagano nella regione di Chūbu, la parte centrale di Honshū, la maggiore delle isole nipponiche. È notte, e nevica abbondantemente. La famiglia si gode serenità e tepore attorno al focolare. D’un tratto il cane Buchi deposita un berretto ai piedi di Mineichi. Qualcuno ha bisogno di aiuto. Il papà, attrezzata la slitta, si precipita nell’oscurità tempestosa con il piccolo Mineichi guidato da Buchi. Sul ciglio della strada quasi cancellata dalla neve scorgono un viaggiatore svenuto. Lo prendono con sé, sotto il proprio tetto confortevole. La mamma getta nel camino una fascina di paglia dopo l’altra, ma tutto appare vano, lo straniero sembra perduto. Eppure no… socchiude gli occhi, è vivo. Lentamente si riprende e si presenta. Si chiama Iguchi Gohei, ha 50 anni ed è un contadino di un villaggio lontano. Gli Hayashi sono al settimo cielo. Sono riusciti a salvargli la vita. È il momento di far festa. Tra una cosa e l’altra, Gohei capisce che i suoi salvatori sono cattolici. Lui invece è scintoista. Trema. Ha paura che quegli “stranieri” avvelenino la sua anima. Dopo tre giorni, ripresosi completamente, ringrazia sentitamente e riprende la via di casa.
Trascorrono i mesi, giunge la primavera, tutto per gli Hayashi va al meglio fino al giorno in cui il papà viene colpito da un male misterioso. Lo visitano dottori su dottori, lo assiste un sacerdote, ma niente, le sue condizioni peggiorano. Passano le settimane, arriva l’autunno, la morte quasi rapisce il pover’uomo che però improvvisamente un giorno guarisce, commuovendo la famiglie e gli amici, sacerdote compreso. Salvo però accorgersi poi tutti che, a causa del trambusto degli ultimi tempi, nessuno ha pensato ad accudire i campi, nessuno li ha seminati e l’inverno è oramai alle porte senza che gli Hayashi abbiamo immagazzinato il fabbisogno per i rigori dei mesi futuri. E tra l’altro quest’anno il piccolo Mineichi non potrà avere nemmeno il suo regalo di Natale. Sconforto generale.
Arriva dunque il 25 dicembre. All’alba Mineichi apre gli occhi e, con sorpresa somma, vede il letto circondato di regali. Cerca di svegliare la mamma, ma la donna è stravolta, provata dalle fatiche degli ultimi giorni. Ha più fortuna con il papà, che strabuzza gli occhi davanti a tanta abbondanza. Assieme leggono il biglietto che accompagna pacchi e pacchetti: «Ti offro questi doni perché hai seguito gl’insegnamenti di Dio e perché hai aiutato tuo papà a salvare la vita di quel viaggiatore. Ben fatto, ragazzo mio». Firmato «Il vecchio del Nord, Santa Kurō», che in caratteri nipponici è 三太九郎
Era infatti successo che, la notte della vigilia, alla porta degli Hayashi si era inaspettatamente ripresentato Gohei. Con sé recava tre borsoni ricolmi di doni e pure due grandi sacchi di riso trascinati da 45 robusti giovanotti. C’era dentro di tutto: abiti, libri e persino denaro. Gohei ha insomma salvato il Natale e il Natale di Gohei ha salvato gli Hayashi. Forse però prima di tutto il Natale ha salvato Gohei. Forse Gohei è stato convertito nelle sue paure dall’esempio puro di quella bella famigliola. Forse era ben più che un uomo. Forse… le favole sono belle perché non spiegano razionalmente tutto e la nostra impossibilità di leggere direttamente il testo giapponese di Santa Kurō fa il resto.
Una cosa sola è certa. Suonano le campane della chiesetta del villaggio, si odono in lontananza i canti: è Natale. Sì, è il Natale di Cristo anche nel Giappone del 1900 quando pochi, pochissimi erano sopravvissuti per conservare la fede, lo è persino nel Giappone secolarizzato di oggi che non crede più a nulla mentre la favola Santa Kurō torna inaspettata dalle tormente delle nevi invernali. Una piccola cosa, davvero piccola. Ma immaginate l’enorme, divina differenza che fa nel deserto angosciante del martirio rosso di ieri e del martirio bianco di oggi. Dunque Merii Kurisumasu, メリークリスマス, cioè “buon Natale” in quella lingua del Sol Levante che un termine tutto suo per dire “Natale di Cristo” non ce l’ha nemmeno.
Marco Respinti