Dopo la nascita in Oriente dell’innografia cristiana, il ciclo di articoli sui primi sviluppi della musica sacra prosegue con l’origine degli inni di lingua latina
di Marco Drufuca
La forma dell’Inno latino, inteso come componimento poetico destinato al canto liturgico, è talmente legata alla figura di Ambrogio (339-397), vescovo di Milano, che già pochi anni dopo la sua morte il termine per riferirsi ad essa era divenuto ambrosianum: così per esempio nella Regola di san Benedetto (480-547) troviamo ripetutamente l’indicazione «inde sequatur ambrosianum». Anche gli studiosi più recenti si riferiscono al vescovo di Milano come al “padre degli inni”, e questo nonostante ai tempi di Ambrogio essi fossero già diffusi in Occidente presso gli ariani, mentre tra i cattolici già Ilario di Poiters aveva tentato di introdurne alcuni nella liturgia, seppur con scarso successo. Nessuno di questi predecessori infatti poté competere con la maestria e l’efficacia dell’opera ambrosiana e Ambrogio può essere giustamente reputato l’artefice dell’affermazione degli inni latini, nonché il padre della loro forma “classica”.
Testimoni di tale efficacia furono, loro malgrado, gli stessi ariani, come riporta trionfalmente lo stesso Ambrogio: «Dicono che il popolo è stato sedotto dall’incantesimo dei miei inni: è vero, non lo nego. Veramente grande è questo incantesimo e nessun altro è più potente: che c’è infatti di più potente della professione della Trinità, che ogni giorno viene celebrata dalla bocca di tutto il popolo? Tutti vanno a gara a proclamare la fede; essi sanno predicare coi versi il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Quelli che a stento erano in grado di essere scolari, sono divenuti tutti maestri».
Come negli inni orientali di Efrem, dunque, per Ambrogio gli inni sono una preziosa occasione di catechesi e di contrasto alle eresie. E proprio nel contesto della lotta contro gli ariani i due biografi del vescovo di Milano, sant’Agostino di Ippona e Paolino, collocano il racconto dell’introduzione degli inni nella prassi della Chiesa di Milano: «Giustina, madre del giovane imperatore Valentiniano, aveva cominciato a perseguitare il tuo campione Ambrogio, istigata dall’eresia in cui l’avevano sedotta gli ariani. Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo, il tuo servo. […] Fu allora che s’incominciò a cantare inni e salmi secondo l’uso delle regioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia» (Confessioni, IX, 7, 15). Entrambi notano in seguito come in brevissimo tempo tale pratica si fosse diffusa in moltissime comunità cattoliche occidentali.
Ma la visione teologica di Ambrogio riguardo al canto va molto più in profondità del solo intento catechetico. Oltre ad altri vantaggi eminentemente pratici e pastorali, come il fatto che i momenti di canto fossero gli unici in cui l’assemblea fosse silente e partecipe durante le celebrazioni, Ambrogio vede nel canto dei fedeli la visibile concretizzazione dell’unità e unanimità della Chiesa nella sua professione di fede.
L’impareggiabile maestria di Ambrogio si manifesta tanto nella scrittura poetica quanto nell’organizzazione formale dei suoi inni: la loro lunghezza (8 strofe di 4 versi l’una) è sufficiente a comunicare adeguatamente i concetti voluti, e allo stesso tempo abbastanza breve da rendere facilmente memorizzabile l’intero inno, il tutto in una metrica (dimetri giambici) facile da seguire e anch’essa di grande aiuto alla memorizzazione. A ciascuna strofa è affidato un concetto o un’immagine, la cui successione nel corso del componimento sembra quasi dipingere un affresco organico meditato e commentato. Il procedere del discorso latino non è artificioso o difficile da seguire, ma allo stesso tempo un uso sapiente delle figure retoriche conferisce ai componimenti grande efficacia comunicativa.
Abbiamo già commentato lo straordinario successo che ebbe l’opera ambrosiana. Tuttavia, prima che una simile novità venisse saldamente integrata nella liturgia ci vollero svariati secoli, pieni di ripensamenti in materia. Per vincere le resistenze furono necessari numerosi concili locali (i principali a Vannes, 465; Agde, 506; Tours, 567), arrivando persino a decretare a Toledo (633): «Siano puniti con la scomunica quanti hanno osato rifiutare gli inni» (can. 13). Di contro, negli stessi secoli a Braga (563) si decretò : «nihil poetice compositum in ecclesia psallatur» (can. 11). A Roma, se è vero che un Papa come Gelasio I (492-496) scrisse egli stesso inni sulla scia di Ambrogio, è altrettanto comprovato che un secolo dopo san Gregorio Magno (590-604) escluse tutti i testi extra-scritturali dalla liturgia. Solo a partire dall’XI-XII secolo, quando ormai l’innografia costituiva tradizione plurisecolare, si arrivò lentamente a una accettazione universale del loro impiego.
Le motivazioni dell’opposizione agli inni vanno certo cercate nella diffidenza verso l’introduzione di testi non canonici, radicata nel primato che l’ascolto della Parola di Dio doveva avere rispetto a ogni umana espressione e, parallelamente, nella constatazione che erano gli eretici coloro che per primi avevano scritto componimenti a uso liturgico, rendendo sospetta tale prassi. Tale diffidenza trovava poi concreto fondamento in molti degli inni scritti dopo Ambrogio (ma che spesso gli erano attribuiti), che talvolta erano molto lontani da quegli austeri quanto efficaci canoni stilistici e teologici che avevano caratterizzato l’opera del vescovo di Milano e che la liturgia esigeva. Bisogna infine notare come questa nuova formara ppresentasse un cambiamento importante nel valore liturgico associato alla musica: fermo restando che in Ambrogio «il canto non gode di assolutezza: è per la teologia, non per la pura estetica, […] a servizio di una poesia che è a sua volta teologia» (I. Biffi), bisogna pure riconoscere che «l’inno ambrosiano rappresenta il primato della musica sulla parola» (S. Corbin). La necessità di scrivere in metrica, nonché quella di utilizzare una melodia sempre identica per ogni strofa, privavano la parola del primato assoluto di cui aveva goduto fino ad allora, invertendo il rapporto fin lì esistente: non più musica come amplificazione della parola, ma piuttosto parola che si piega alle esigenze dettate dalla musica.
Della produzione di Ambrogio sono pervenuti a noi 13 inni considerati autentici, scritti per le varie ore del giorno e per le commemorazioni dei martiri. Tra questi, ricordiamo l’inno Ad horam tertiam (il testo e traduzione cliccando QUI), profonda riflessione sul valore salvifico della Croce di Cristo: spicca per essere giunto a noi con una sola melodia. Ciò non è certamente sufficiente a qualificarla come scritta da Ambrogio stesso, ma certamente è segno di grande antichità e non è dunque infondato ritenere che conservi almeno alcuni elementi della melodia originale.
Sabato, 14 settembre 2024