Da Libero del 21/04/2018
Sull’altra sponda del Mediterraneo, a poche miglia marine dall’ Italia, la Libia è presagio di incertezza. Michela Mercuri, docente di Geopolitica del Medio Oriente al Sioi, la Società italiana per l’ organizzazione internazionale, di Roma, aveva dato al suo volume, edito da Franco Angeli (pp. 164, 19 euro), il titolo Incognita Libia. Un Paese sospeso, che oggi, con la probabile uscita di scena del generale Khalifa Haftar, comandante dell’ Esercito nazionale libico, diviene ancora più attuale. Tanto da chiederle quali saranno gli sviluppi futuri a Tripoli e Bengasi.
Fino alla notizia del suo ricovero in un ospedale di Parigi, Haftar era il più probabile vincitore delle prossime elezioni in Libia. Si sta aprendo una nuova stagione con il suo tramonto?
«Con Haftar fuori dai giochi, che sia morto oppure no, il panorama libico si presenta ancora più frammentato di prima. L’ inviato dell’ Onu Ghassam Salamé ha confermato che le elezioni sono in programma. Ma la scomparsa di Haftar non porterà a un rafforzamento automatico del governo di Fayez al-Serraj, perché i due si ponevano in modi completamente diversi, tanto quanto i loro referenti».
E quale risultato potrebbe uscire dalle urne?
«Saif al-Islam Gheddafi, figlio dell’ex raìs Muammar, potrebbe essere il terzo incomodo: per candidarsi ha fatto perno sulla deriva securitaria del Paese. E i gruppi che finora hanno sostenuto Haftar potrebbero riposizionarsi con Gheddafi».
Gruppi vuol dire tribù?
«Certo, per esempio i Warfalla, ma anche gli ex gheddafiani, che sono ancora numerosi nel Paese».
E in Cirenaica, chi decide la successione ad Haftar?
«In questo momento, le voci che circolano indicano i figli di Haftar, Khaled e Saddam, ma una delle figure più in vista è il generale Abdul Salam al-Hassi, vicino agli alleati regionali storici, Egitto ed Emirati Arabi Uniti».
E l’ Europa, dopo l’intervento militare del 2011, non se ne occupa più?
«C’è chi si è ritagliato un ruolo da protagonista e chi sembra assente. Il trasferimento rapido di Haftar dalla Giordania alla Francia indica che Parigi vuol gestire la transizione tenendo in ostaggio la sorte del generale, dando la notizia della morte quando lo riterrà opportuno, per prendersi il tempo di una scelta favorevole e attendere il momento giusto per staccare la spina. Tutto per il mantenimento dei suoi interessi regionali».
Quindi, la politica delle bombe di Sarkozy ha funzionato, alla fine?
«Non nel senso che la Francia abbia ottenuto lo scopo che si prefiggeva, cioè di mettere le mani sulle risorse del Paese. Però sono corsi ai ripari per mettere un piede in territorio libico, vendendo armi ad Haftar, il quale inoltre ha consentito loro la presenza di forze speciali nella base di Benina, in Cirenaica, e la possibilità di trivellare e scavare pozzi nelle zone della Sirte. Hanno saputo agire in prospettiva futura. La Francia ha approfittato della debolezza europea per porsi come attore indispensabile. In termini di immagine e di grandeur».
In effetti, Sarraj e Haftar si sono incontrati all’ Eliseo nel luglio scorso senza nemmeno avvertire Roma. E, ora, cosa cambia per l’ Italia, almeno per quanto riguarda il controllo delle migrazioni?
«Ormai la gestione della partita è in mani francesi. E la debolezza di Haftar, qualunque sia il suo decorso, non inciderà perché le partenze avvengono da zone sulle quali lui non esercitava influenza. L’Italia ha provato a limitare il fenomeno attraverso accordi capestro, finanziando le milizie per fermare il traffico. Non ha funzionato».
E ora, che il governo in carica è a fine corsa, ma ancora non si intravede un nuovo assetto politico in Italia?
«La difficoltà è che il problema è esattamente quello di tre mesi fa. Le proiezioni del Viminale evidenziano un calo dell’ 80% degli sbarchi, ma si stimano tra le 400mila e le 700mila unità bloccate in Libia. Nei 31 campi di detenzione ufficiali, Oim e Unhcr ne indicano 20mila. Gli altri risultano sparsi per il territorio».
Sembra una situazione irrisolvibile…
«Nessun governo riesce a controllare le milizie. Sostenere l’uno o l’altro non muta la situazione. Le soluzioni sono semplici da enunciare: disarmare le milizie, ma per ottenere quel risultato occorrerebbe organizzare una missione internazionale nel Paese. In questo momento non c’è in Libia un’autorità nazionale che lo avalli. Inoltre, per combattere la criminalità. bisognerebbe riportare l’ economia a un livello centralizzato. Ma se non c’ è un governo non si può procedere. Per tamponare, l’ Italia ha distribuito soldi a pioggia a vari gruppi, creando una spirale drammatica. Se li do a uno, un altro occupa i pozzi perché vogliono denaro e riconoscimento. Non è questo l’approccio efficace».
È un’ agenda complessa per chi andrà prossimamente a Palazzo Chigi…
«Sì, soprattutto perché nemmeno il piano B dell’ Italia ha funzionato. Abbiamo provato ad agire addestrando in accordo con Sarraj la guardia costiera, poi siamo scesi verso il Niger dando 50 milioni per costruire campi all’interno del Paese. Ma la missione in Niger è saltata, forse per un equivoco fra Macron e Gentiloni.
Il primo si aspettava un supporto italiano a una missione combat sotto egida francese.
Noi invece abbiamo optato per l’addestramento di truppe e abbiamo mandato 40 ispettori a Niamey dove c’è una base americana».
E a Parigi si sono offesi?
«La ragione è che il 40% dell’uranio per i reattori nucleari della Francia arriva dal Niger».
Bisogna ripartire con un piano C, insomma?
«Occorre una strategia di cooperazione con i Paesi di partenza e transito, ma non si può applicare alla Libia. Perché “aiutiamoli a casa loro” non resti uno slogan si deve agire a livello europeo, senza limitarsi a dare una mazzetta ai potenti locali, ma pensando a sviluppi di lungo periodo, a livello economico, diplomatico e anche d’intelligence. Era emersa l’idea di un Piano Marshall, ma sono strumenti da applicare e sui quali investire.
Rimpatri e respingimenti non bastano».
Andrea Morigi