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Trump e l’immigrazione: funziona così sin dal 1798

2 Febbraio 2017 - Autore: Marco Respinti

Da “La nuova Bussola Quotidiana” del 1 febbraio 2017. 

Le reazioni isteriche e smodate con cui mezzo mondo ha riposto alla decisione del presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump di sospendere l’ingresso di profughi e immigrati nel Paese nordamericano rivela malafede o ignoranza su almeno due punti decisivi.

Il primo riguarda la libertà religiosa. Da più parti si imputa a Trump di discriminare i musulmani a motivo della loro fede, ma è una grossa bugia. L’ordine esecutivo firmato dal presidente il 27 gennaio non abolisce il diritto d’ingresso degli stranieri negli Stati Uniti, ma istituisce una moratoria sull’immigrazione onde predisporre adeguati sistemi di controllo. In nessuna delle nove pagine di cui si compone il documento viene citato l’islam (né l’islamismo). Si parla invece espressamente di criminalità, terrorismo e sicurezza. Il punto di quel provvedimento che ha fatto stracciare le vesti alle anime belle è quello in cui il presidente blocca (per 90 giorni) l’ingresso di cittadini di Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen, ma in nessuna pagina e in nessun rigo si motiva la decisione su base religiosa. I sette Paesi colpiti dal provvedimento lo sono in quanto ritenuti «[…] dannosi per gl’interessi statunitensi». Se quei sette Paesi sono a maggioranza musulmana non è certo colpa di Trump. Magari varrebbe la pena domandarsi perché proprio sette Paesi così sono «[…] dannosi per gl’interessi statunitensi», ma la domanda andrebbe rivolta all’ex presidente Barack Obama durante il cui mandato, il 18 dicembre 2015, è stata varata la norma che impone ai cittadini appunto di quei sette Paesi desiderosi di entrare negli Stati Uniti di munirsi di quel visto d’ingresso che invece ai cittadini di moltissimi altri Paesi del mondo non «[…] dannosi per gl’interessi statunitensi» non è richiesto. La lista di quei sette Paesi, infatti, non figura nell’ordine esecutivo di venerdì scorso, non figura nemmeno nella legge sull’immigrazione del 1952 emendata nel 1965 cui l’ordine esecutivo fa riferimento e si evince soltanto dalla suddetta legge approvata durante l’era Obama. I mass-media che della famosa lista dei sette Paesi temporaneamente bloccati hanno fatto una clava contro Trump si sono scordati di dircelo. Negli Stati Uniti la libertà religiosa è il primo diritto politico dei cittadini e così è sin dalla fondazione del Paese. Trump non ha minimamente toccato il principio e neanche ha sfiorato l’argomento.

Il secondo punto riguarda l’immigrazione. Le stesse anime belle si stracciano le vesti dicendo che gli Stati Uniti sono un Paese d’immigrati, fondato da Padri costituenti assolutamente favorevoli all’immigrazione che Trump ora tradirebbe con un gesto intrinsecamente antiamericano. Dimenticano però che tra giugno e luglio 1798 il 5° Congresso federale, dominato dal partito dei Federalisti (irto di Padri fondatori, tra cui George Washington [1732-1799] ancorché ufficialmente neutrale), varò gli “Alien and Sedition Acts”, quattro leggi con cui si limitavano le richieste di cittadinanza avanzate dagli stranieri, si dotava il presidente sia del potere di dichiarare nemici i cittadini di Paesi in guerra con gli Stati Uniti che negli Stati Uniti risiedevano sia di espellere stranieri ritenuti pericolosi e si autorizzava l’azione penale contro gli estensori di testi offensivi verso le istituzioni statunitensi. Benché modificata, quest’ultima misura è ancora in vigore. Anche allora il pericolo temuto era il terrorismo: quello della Francia giacobina da cui gli americani cercavano di distinguersi in tutti i modi. I Democratico-Repubblicani di Thomas Jefferson (1743-1826) si opposero agli “Alien and Sedition Acts”, ma quelle leggi sancivano un principio che ha sempre guidato il Paese nordamericano: massima disponibilità con il minimo rischio; immigrazione sì, ma in sicurezza.

Gli Stati Uniti sono così ancora adesso. Nel Paese gli stranieri sono bene accetti, ma il permesso d’ingresso non è automatico: lo concedono le autorità con un visto che garantisce accesso temporaneo sussistendo elementi di sicurezza e di reperibilità. Stabilito questo principio, vi si deroga subito per gran parte dei cittadini del mondo cui viene accordata la “sospensione” dell’obbligatorietà del visto d’ingresso sulla base di un accordo fiduciario. I cittadini di gran parte del mondo vengono cioè di regola considerati non «[…] dannosi per gl’interessi statunitensi». La “sospensione” dell’obbligatorietà del visto d’ingresso è regolata dal “Visa Waiver Program”, ovvero il “Programma di esenzione dal visto” per effetto del quale in prossimità degli Stati Uniti i passeggeri stranieri imbarcati sugli aerei o sulle navi compilano una breve dichiarazione firmata che li rende eleggibili alla “sospensione” consentendo loro di restare nel Paese nordamericano al massimo 90 giorni. Ebbene, la legge del 2015 approvata durante l’era Obama “sospendeva” quella “sospensione” per i famosi sette Paesi critici sul piano della sicurezza (non delle religione) imponendo ai loro cittadini che volessero recarsi negli Stati Uniti la necessità di dotarsi di un visto e venerdì Trump ha ulteriormente sospeso anche la concessione dei visti per il tempo necessario a rafforzare le misure di sicurezza. La legge sull’immigrazione del 1952 emendata nel 1965 consente al presidente (a qualsiasi presidente, non solo a Trump) di farlo.

Marco Respinti

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