Da “La Bianca Torre di Echtelion” del 21 giugno 2017. Foto da New York Post
Occorre una premessa. È chiamato “Russiagate”, ma non è ancora uno scandalo: infatti, si tratta solo di una serie, piuttosto vaga, di accuse lanciate anzitutto dai media e non ancora provate. Da queste colonne, lo si è ripetuto fino alla nausea, ma, a costo di apparire stolidi, va ripetuto ancora, ricostruendo i fatti passo dopo passo.
La parte del leone nella vicenda l’hanno svolta e la stanno svolgono i quotidiani The New York Times e The Washington Post, campioni storici del giornalismo investigativo e della spregiudicatezza, non esattamente noti come testate reazionarie. A loro si è affiancato, almeno per una certa parte della vicenda, il bimestrale Mother Jones, un gigante della stampa liberal con base a San Francisco attivissimo in rete, e BuzzFeed, un aggregatore di notizie dal web.
Da mesi è tutto però solo un tripudio di fughe di notizie, illazioni, presunzioni, presuntuosi, mezze verità ovvero mezze falsità, tweet, piazze che pensano già di sapere tutto mentre invece non sanno niente (come tutti noi, ma la differenza è che loro non lo dicono), un mucchio di soloni, l’ufficiosità sempre prima dell’ufficialità e pure WikiLeaks che, per simpatica e utile che possa essere, è essenzialmente tanto un furto sistematico di proprietà privata (cosa che è bene tenere sempre a mente) quanto un veleno a rilascio graduale e parziale di tossine.
L’idea centrale è questa. Diversi esponenti dell’entourage di Donald J. Trump, sin dai tempi della campagna elettorale, avrebbero intrattenuto rapporti illeciti con Mosca. Fra loro, l’ex generale Michael T. Flynn poi Consigliere del presidente per la sicurezza nazionale; il lobbysta Paul Manafort, direttore della campagna elettorale di Trump nel 2016; Carter Page, uno dei consiglieri per la sicurezza nazionale della campagna elettorale di Trump; il senatore Jeff Sessions, poi ministro della Giustizia; il genere e consigliere di Trump, Jared Kushner. Stranamente però non Rex Tillerson, già numero uno della ExxonMobil e da tempo in ottimi rapporti con il Cremlino, poi Segretario di Stato. Da parte russa, i coinvolti sarebbero l’ambasciatore russo a Washington Sergej I. Kisljak e talora il banchiere Sergej Gorkov.
Ma il punto principale è che nessuno ha mai ancora detto perché quei rapporti con i russi, ammesso siano esistiti, sono illeciti. Non esiste in fatti un capo di accusa formale. La vicenda di “hacker russi” che avrebbero sabotato le elezioni in combutta con i collaboratori di Trump, e forse con Trump stesso, non è suffragata da prove. E anche la mera affermazione che ciò sia avvenuto è proferita sì da livelli altissimi degli apparati d’intelligence, ma è sempre troppo schiacciata sotto interessi politici partigiani. Manca dunque sempre il corpo del reato, il movente, il colpevole.
Ora, del “Russiagate” si capirebbe però poco se non si ricordasse cosa è accaduto prima con Hillary Clinton, la donna che l’8 novembre avrebbe dovuto stracciare Trump alle elezioni presidenziali e che invece ne è stata letteralmente annichilita. Bisogna prenderla alla lontana.
Il bandolo della matassa è la “William J. Clinton Foundation”, creata nel 1997 (quando ancora Bill, marito fi Hillary, era presidente degli Stati Uniti) con sede al 1200 di President Clinton Avenue di Little Rock, Arkansas. Nel 2013 viene rinominata “Bill, Hillary & Chelsea Clinton Foundation” e al mondo diventa nota semplicemente come “Clinton Foundation”, operativa dal 42esimo piano di un palazzone che sta al civico 1271 di Avenue of the Americas, New York. Una “Fondazione di famiglia” che funziona come una “Fondazione d’affari” controllando una rete di entità quali la Clinton Health Access Initiative, la Clinton Global Initiative, la Clinton Global Initiative University, la Clinton Climate Initiative, la Clinton Development Initiative, la Clinton Economic Opportunity Initiative, la Clinton Giustra Sustainable Growth Initiative, la Clinton Health Matters Initiative, la Alliance for a Healthier Generation e il No Ceilings Project.
Nel 2009, il presidente Democratico Barack Obama nomina Hillary Clinton Segretario di Stato; ricoprirà l’incarico sino al 2013, per poi prepararsi a correre per la Casa Bianca nel 2016. Attraverso la Clinton Foundation e le sue controllate, Hillary piega sistematicamente le politiche del Dipartimento di Stato a proprio vantaggio economico. I Clinton diventano così una colossale macchina da soldi che, attraverso abusi di potere, trascinano Obama ‒ che non si accorge mai di nulla… ‒ in una politica fallimentare e assurda. Della partita sono infatti a pieno titolo anche il presidente-marito Bill, che si fa strapagare conferenze in luoghi del mondo dove poi la moglie Hillary sigla accordi lucrosi per sé e i propri interlocutori in barba all’interessa nazionale americano, alla decenza e alla legge, e la figlia Chelsea, erede designata di questo impero di dollari. È una sagra permanente di faccendieri, trafficoni, certamente pure spie e tanti, tanti rappresentati di governi e potentati esteri, nonché ex criminali graziati senza ragione, che imperversano in mille luoghi del pianeta, dal Kazakistan ad Haiti alla Nigeria. Alla Clinton Foundation è oratore gradito anche il presidente del Consiglio dei ministri italiano Matteo Renzi, e tra i donatori all’ente vi sono pure il ministero italiano dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nonché il Monte dei Paschi di Siena.
Il tutto finisce in un libro, Clinton Cash: The Untold Story of How and Why Foreign Governments and Businesses Helped Make Bill and Hillary Rich (HarperCollins, New York 2015), scritto da Peter Schweizer, presidente del Government Accountability Institute di Tallahassee, in Florida, ex ricercatore alla prestigiosa Hoover Institution on War, Revolution and Peace dell’Università californiana di Stanford (quella cui si sono legati, tra gli altri, Eric Voegelin e Robert Conquest) e direttore dell’oramai noto di Breitbart News. Il libro diventa anche un documentario, Clinton Cash [link: https://www.youtube.com/watch?v=rmMe-2qaSss%5D, diretto da M.A. Taylor e presentato in anteprima al Festival del cinema di Cannes nel maggio 2016 e arrivato in sala il 24 luglio a Filadelfia, giusto per la Convenzione Nazionale del Partito Democratico che incorona Hillary candidata presidenziale. Sul malaffare dei Clinton arriveranno poi altri libri, Partners in Crime: The Clinton’s Scheme to Monetize the White House for Personal Profit (WND Books, Washington 2016) di Jerome R. Corsi e Guilty as Sin: Uncovering New Evidence of Corruption and How Hillary Clinton and the Democrats Derailed the FBI Investigation (Regnery, Washington 2016) di Edward Klein.
In questo brodo di coltura, scoppia il caso della posta elettronica che l’allora capo del Dipartimento di Stato Hillary gestiva disinvoltamente attraverso un attaccabilissimo server privato domestico gestito dalla Platte River Networks invece di usare gli strumenti criptati e sicuri messi a disposizione dal governo, posta elettronica ovviamente carica di notizie riservate, informazioni sensibilissime e segreti di Stato. Da un lato mettendo in pericolo interessi nazionali vitali, dall’altro forse occultando traffici illeciti.
Accadde per esempio che l’11 settembre 2012 dei terroristi islamisti di Ansar al-Sharia attaccarono obbiettivi americani a Bengasi, in Libia, uccidendo l’ambasciatore J. Christopher Stevens (1860-2012), il diplomatico Sean Smith (1978-2012) e due funzionari della CIA, Glen Doherty (1970-2012) e Tyrone S. Woods (1971-2012). Quando, nel marzo 2015, si viene a sapere che la Clinton eludeva i canali informatici ufficiali, scatta una indagine dell’FBI che vuole prendere visione delle email mal gestite in quel modo, ma che non lo può fare completamente giacché migliaia e migliaia di esse la Clinton le ha nascoste e pure in parte distrutte.
A fine primavera 2016 l’FBI conclude l’inchiesta stabilendo che il comportamento della Clinton è stato colmo d’illeciti, eppure il suo direttore, James B. Comey Jr. (un ex Repubblicano voluto alla guida del Bureau dal presidente Obama nel settembre 2013), decide di chiudere non uno ma entrambi gli occhi con un gesto che ha sorpreso e mal disposto gran parte del personale dello stesso FBI. Per questo Comey è stato ascoltato il 7 luglio 2016 dalla Commissione Giustizia della Camera federale dei deputati. Uno dei momenti più clamorosi della vicenda è l’immunità garantita da Comey a Cheryl D. Mills e a Heather Samuelson, donne, avvocati e fidati consiglieri di Hillary, che hanno così continuato a rappresentare legalmente la Clinton per la vicenda delle email anche se erano finite tra i sospetti di quello stesso caso e pure se al tempo dei fatti contestati fossero funzionari governativi implicati in azioni poi sotto inchiesta. Ma non è l’unico caso di clamoroso favoritismo.
Ora, nel 2016 le indagini si sovrappongo alle primarie per le presidenziali dell’8 novembre. La polizia federale scopre illeciti, trova irregolarità, ma condona tutto. Il segretario di Stato ha compiuto un abuso, ma non conta. La campagna di Hillary corre a gonfie vele, forte pure di finanziamenti immani che Trump, “il miliardario”, non può nemmeno sognare. Tutto sembra compiuto.
Ma Trump ha dei sussulti, ricupera un poco, si riaffaccia sul proscenio. Le elezioni sono vicine e saltano fuori video sessisti di più di dieci anni prima finché, clamorosamente, Comey riapre a sorpresa le indagini sulle email nascoste e distrutte di Hillary. L’ex Segretario di Stato grida all’attentato politico in favore di Trump. Davvero? Anzitutto c’è della materia, e grave. In secondo luogo, l’indagine favorirà Trump solo se Hillary verrà condannata. Ma se invece accadesse il contrario, a poche ore delle elezioni? Ed è proprio questo che accade.
È ora di entrare, quindi, nel cuore del “Russiagate”.
Marco Respinti