Da “La bianca torre di Echtelion” del 21 giugno 2017. Foto da New York Post
Per seguire i corsi e ricorsi di una vicenda molto, molto speciosa è utile una timeline ragionata che si potrebbe intitolare “Il condizionale è d’obbligo”. Ci sono infatti solo voci e accuse, mai prove.
La domanda da tenere sempre presente nello scorrere la cronologia che segue è: quali interessi avrebbero spinto Donald J. Trump e Vladimir Putin a tramare illegalmente? La risposta starebbe probabilmente nelle sanzioni comminate alla Russia per avere violato la sovranità dell’Ucraina a partire dal febbraio 2014 e avere alla fine annesso la secessionista repubblica di Crimea il 18 marzo. Assieme all’Unione Europea, gli Stati Uniti considerano infatti quel territorio ancora appartenente all’Ucraina e pertanto sotto occupazione militare russa. Vista la rigidità della politica caparbiamente (e talora provocatoriamente) antirussa praticata dall’allora presidente Barack Obama, Mosca avrebbe favorito la vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali dell’8 novembre 2016 di modo che questi, avendo promesso un cambio netto di rotta e avendo pure espresso generici apprezzamenti per la politica “maschia” di Putin, potesse finalmente annullare le sanzioni. In cambio, Trump avrebbe guadagnato una vittoria elettorale altrimenti impossibile contro Hillary Clinton grazie ai cyber-brogli messi in campo da una “squadraccia” di “spetsnaz del web” in grado di taroccare il voto americano. Ecco la successione degli avvenimenti, dove volutamente non sempre i fatti sono separati dalle opinioni.
1° febbraio 2016. In Iowa, prendono il via le primarie del Partito Repubblicano (GOP) e del Partito Democratico per designare i due candidati presidenziali che l’8 novembre si contenderanno la Casa Bianca. Nel GOP, Trump (uomo non organico né al partito né al movimento conservatore) perde; vince il conservatore Ted Cruz. Inizia la lunga marcia di Trump verso la Casa Bianca, contraddistinta da faide con il GOP, opposizioni da destra, contestazioni-rissa da sinistra, colpi bassi, ingiurie, scandali veri e presunti. Tra i Democratici vince Hillary Clinton, sempre decisamente appoggiata dagli apparati del partito, talora in difficoltà più che altro d’immagine, ma mai, né matematicamente né economicamente né politicamente impensierita dall’unico sfidante, Bernie Sanders, fiero di definirsi socialista, che pure lungo il percorso ottiene lusinghieri successi.
28 febbraio. L’allora senatore Repubblicano Jeff Sessions appoggia pubblicamente la candidatura di Trump e diviene una figura importante del suo staff.
3 marzo. Sessions è nominato presidente del Comitato per la sicurezza nazionale della campagna elettorale di Trump.
27 aprile. Trump incontra per pochi minuti l’ambasciatore russo a Washington, Sergej I. Kisljak, durante una ricevimento che precede un comizio incentrato sulla politica estera, organizzato nella capitale federale dal Center for the National Interest, il think tank nato dall’esperienza dello storico periodico neoconservatore The National Interest. Kisljak è uno dei molti ambasciatori invitati all’evento e presenti nel pubblico. C’è anche Sessions; nulla prova che abbia incontrato Kisljak [link: http://nationalinterest.org/feature/statement-regarding-president-trumps-april-27-2016-foreign-19715]
4 maggio. Trump è il candidato presidenziale del GOP, in pectore ma matematicamente certo dopo che il suo unico vero sfidante rimasto, Ted Cruz, si ritira dalla corsa, seguito da John Kasich, che invece non ha mai avuto alcuna chance di riuscita.
14 giugno. Il Comitato Nazionale Democratico (CND), l’organo direttivo del partito omonimo, rivela che “hacker russi” ne hanno violato i server, accedendo a documenti sensibili.
Giugno. Un «[…] ex funzionario anziano dei servizi segreti di un Paese occidentale, specializzato nel controspionaggio russo» sta compiendo ricerche su presunti legami fra Trump e il governo russo «[…] per un progetto di ricerca originariamente finanziato da un cliente Repubblicano critico» del futuro presidente americano. Lo rivelerà un articolo di David Corn, pubblicato il 31 ottobre sul sito del bimestrale Mother Jones. Le ricerche dell’anonimo ex funzionario anziano dei servizi segreti diventano un dossier letteralmente esplosivo. Vi si parla anche di attività sessuali e finanziarie illecite che sarebbero state operate da Trump in Russia, a motivo delle quali il tycoon prestato alla politica potrebbe essere ricattato dal Cremlino. Ma non vi è nemmeno una prova; fino a oggi nulla è ancora stato dimostrato. Il dossier viene inviato all’FBI a tranche; la prima è datata 20 giugno, l’ultima 13 dicembre. È a questo rapporto spionistico anonimo dai contenuti mai confermati che si deve l’ipotesi di connessioni illecite fra l’entourage di Trump e il governo russo. È questo dossier “senza autore” e senza prove la madre del cosiddetto “Russiagate”, che dunque non si sa nemmeno se esista in ipotesi.
7 luglio. Carter Page, uno dei consiglieri per la sicurezza nazionale della campagna elettorale di Trump, parla alla Nuova Scuola Economica di Mosca alla celebrazione di fine anno. Lo staff del Comitato per la sicurezza nazionale era al corrente: trattandosi di un evento potenzialmente delicato, prima aveva vietato a Page la partecipazione, poi l’aveva autorizzata come iniziativa personale che non rappresenta ufficialmente la campagna elettorale di Trump.
18 luglio. Sessions parla brevemente con Kisljak nel giorno che inaugura la Convenzione nazionale del GOP, a Cleveland (18-21 luglio), convocata per assegnare ufficialmente la nomination presidenziale al vincitore delle primarie. Session incontra Kisljak assieme a diversi altri rappresentati di Paesi esteri. Kisliak incontra separatamente anche Page e Jeffrey D. “J.D.” Gordon, altro consigliere per la sicurezza nazionale della campagna elettorale di Trump. Per Gordon si tratta di una semplice conversazione informale.
21 luglio. Il GOP nomina ufficialmente Trump candidato presidenziale.
23 luglio. Appena prima dell’apertura della Convenzione nazionale del Partito Democratico a Filadelfia (25-28 luglio), WikiLeaks rende pubbliche 22mila email rubate al CND. La deputata Debbie Wasserman Schultz, presidente del CND, si dimette quando alcune di quelle email palesano il suo favore per Hillary contro Sanders. Di quelle email è rimasto solo il ricordo di polvere e rumore.
27 luglio. Nell’ultima conferenza stampa tenuta prima delle elezioni dell’8 novembre, Trump, in riferimento all’“emailgate” della Clinton, dice: «Russia, se sei in ascolto, spero che tu sia in grado di trovare le 30mila email mancanti». E ancora: «Penso che la nostra stampa ti ricompenserebbe alla grande». Trump insiste anche su Twitter.
28 luglio. I Democratici nominano ufficialmente Hillary candidato presidenziale.
27 agosto. Il senatore Democratico Harry Reid (si ritirerà in dicembre) scrive una lettera al direttore dell’FBI James B. Comey Jr. per chiedere, con queste parole, l’avvio di una indagine formale: «La prova di una connessione diretta tra il governo russo e la campagna presidenziale di Donald Trump continua a montare, e ha portato Michael Morrell, l’ex direttore facente funzione della CIA, a definire Trump un “agente inconsapevole” di Russia e Cremlino». Le indagini sul “Russiagate” sarebbero insomma partite perché, in piena campagna elettorale, un esponente di uno dei due partiti contendenti ha suggerito di avviarle al capo della polizia federale, già informato dei “fatti” da un dossier scritto da un ex spia anonima che non ha mai fornito lo straccio di una prova e di cui il pubblico non sa?
23 settembre. L’intelligence americana avvia l’indagine su eventuali legami tra Page, che ha parecchi interessi d’affari in Russia, e il governo di Mosca.
8 settembre. Sessions incontra privatamente Kisljak nel proprio ufficio al Senato, in presenza di tutto il proprio staff. In una lettera al Senate Judiciary Committee del 6 marzo 2017, Sessions dirà di non «[…] ricordare discussioni con l’ambasciatore russo, o con altri rappresentanti del governo russo, sulla campagna elettorale, né in quella né in altre occasioni».
Ottobre. L’FBI riceve dallo US Foreign Intelligence Surveillance Court il mandato per indagare su possibili legami fra Trump e la Russia.
7 ottobre. I servizi d’intelligence di Washington accusano pubblicamente Mosca d’interferenze nelle elezioni in corso per avere hackerato i server del CND e di altre organizzazioni politiche americane. Nel pomeriggio, The Washington Post pubblica il famoso “video a orologeria” del 2005 in cui Trump si lasciò andare a commenti da caserma raggelando tanto il GOP, in buona parte ostile al futuro presidente, quanto l’integerrimo Mike Pence, che ha accettato di essere il suo candidato alla vicepresidenza. Trump è ai minimi storici. Non c’è sondaggio che non lo dia per politicamente spacciato. Passano solo poche ore e WikiLeaks diffonde altre migliaia di email hackerate al manager della campagna di Hillary Clinton, John Podesta (dimenticate anch’esse). Per danneggiare i Democratici? Trump comunque non risale nei sondaggi.
28 ottobre. Con una lettera al Congresso, Comey riapre “a sorpresa” le indagini sulla Clinton perché l’FBI, durante una indagine su un altro caso, ha trovato materiali che potrebbero ricondurre allo scandalo silenziato delle email mal gestite di Hillary. L’indagine è quella su un ex deputato Democratico che avrebbe inviato messaggini osceni a una quindicenne: è Anthony D. Weiner, marito separato della più fedele collaboratrice di Hillary, Huma Abedin. L’FBI ha trovato su cellulari e computer sequestrati ai due coniugi migliaia di messaggi potenzialmente legati a delicatissime questioni di Stato. Va ricordato che la chiacchieratissima Huma Abedin, strettissimo consigliere di Hillary, è il capo di quel “cerchio magico” che si autodefinisce “Hillaryland”, 13 donne e un solo uomo ma gay, inseparabile dall’ex First Lady sin dai tempi della prima campagna elettorale presidenziale di Bill nel 1992 e che poi ha scortato l’Hillary senatrice federale dello Stato di New York (2001-2009), l’Hillary Segretario di Stato (2009-2013) e l’Hillary aspirante presidente (cfr. Jeff Gerth e Don Van Natta Jr., Her Way: The Hopes and Ambitions of Hillary Rodham Clinton, Back Bay Books, New York 2007).
30 ottobre. Il senatore Reid scrive nuovamente a Comey insistendo affinché Trump venga indagato in ragione di certe informazioni «esplosive» già in possesso dell’FBI. Intende sempre il famoso dossier di una ex spia anonima privo di prove, di cui ancora il pubblico ancora non sa?
31 ottobre. Mother Jones dà per la prima volta notizia del famoso dossier anonimo su Trump.
6 novembre. Con un’altra lettera al Congresso, l’FBI annuncia la chiusura della seconda e ultima indagini sulla Clinton, scagionandola completamente da ogni addebito. La polizia federale ha scandagliato 650mila email in soli nove giorni, festività comprese…. Comey promette che su Hillary, su questo tema, non vi saranno più indagini. Mancano meno di 48 ore alle elezioni e la Clinton, dopo mille favori e coperture, viene ufficialmente ripulita da ogni accusa e sospetto.
8 novembre. Contro ogni pronostico e previsione, Trump vince le elezioni.
Per giorni le grandi città americane sono prese d’assalto da bande di violenti. L’opposizione politica, mediatica e popolare si scatena, parlando implicitamente e poi sempre più esplicitamente di “illegittimità” del nuovo presidente e anche di brogli. Certa di una vittoria che credeva di avere in tasca, l’opposizione non riesce ad accettare il risultato ottenuto da Trump in modo perfettamente democratico. È più rabbia che passione politica (anche per la perdita, per molti, di ruoli di potere importanti e di commesse danarose). Tornano a intensificarsi le voci di una “Russian Connection” che avrebbe alterato il risultato. Ma se fosse vero, perché gli “amici russi” hanno permesso che la vittoria sia comunque costata a Trump 2.868.691 voti in meno rispetto a Hillary così come la perdita, per il GOP, di due seggi alla Camera federale e sei al Senato?
17 novembre. Il presidente eletto Trump nomina l’ex generale Michael T. Flynn Consigliere per la sicurezza nazionale.
18 novembre. Trump annuncia che nominerà Sessions al ministero della Giustizia. Lo stesso giorno il senatore Repubblicano, John McCain, candidato sconfitto alla Casa Bianca nel 2008, decide di approfondire la questione del “dossier Trump” redatto inviando una persona fidata in Gran Bretagna ‒ oramai si sa che l’anonimo autore vive lì ‒ per ottenere il documento. In 24 ore, McCain ha in mano il dossier.
Inizio dicembre. Flynn e il genero-consigliere di Trump, Jared Kushner, incontrano privatamente per 20 minuti Kisljak alla Trump Tower di New York onde impostare le future comunicazioni tra Washington e Mosca.
9 dicembre. Il presidente uscente Barack Obama ordina ai servizi segreti di stilare un rapporto sulle presunte interferenze russe nelle elezioni entro il 20 gennaio, giorno dell’insediamento ufficiale di Trump alla Casa Bianca. Lo stesso giorno McCain incontra da solo Comey e gli consegna il dossier della ex spia britannica.
29 dicembre. A meno di un mese, festività natalizie comprese, dalla fine del suo mandato, Obama espelle dagli Stati Uniti 35 diplomatici russi, annunciando al contempo nuove sanzioni contro Mosca, per l’hackeraggio dei server del DNC e della posta elettronica di Podesta. Flynn parla al telefono più volte con Kisljak.
30 dicembre. Putin annuncia che non risponderà all’azione proditoria di Obama.
6 gennaio 2017. Un rapporto del direttore della National Intelligence, James R. Clapper Jr., conclude che il governo russo è colpevole di attacchi informatici e diffusione di documenti rubati a danno di Hillary Clinton e del sistema statunitense. Trump, presidente eletto ma non ancora in carica, incontra Comey per la prima volta alla Trump Tower di New York.
10 gennaio. Obama e Trump ricevono una sintesi del famoso dossier anonimo, pubblicato integralmente per la prima volta da BuzzFeed, un sito che rilancia articoli presi dal web. L’identità del suo autore è ormai nota: si tratta di Christopher Steele, ex funzionario dell’ MI6 britannico, il quale peraltro fa subito perdere le proprie tracce.
11 gennaio. Trump dice di ritenere che la Russia abbia condotto operazioni di hackeraggio.
20 gennaio. Trump s’insedia ufficialmente come 45° presidente degli Stati Uniti.
24 gennaio. Flynn è interrogato dall’FBI in merito ai rapporti con Kisljak intercorsi a fine dicembre. All’epoca, Flynn era già stato nominato al vertice della Sicurezza nazionale, ma non era ancora entrato in carica, cosa che avrebbe fatto il 20 gennaio, giorno dell’insediamento ufficiale del nuovo presidente Trump e di tutta la sua Amministrazione. Kisljak gli avrebbe al tempo chiesto conto delle sanzioni volute da Obama e lui avrebbe risposto di non preoccuparsi.
26 gennaio. Il ministro della Giustizia reggente, Sally Yates, dice alla Casa Bianca che, nonostante i dinieghi, Flynn ha discusso telefonicamente con Kisljak, prima che Trump diventasse presidente, la fine delle sanzioni a suo tempo comminate a Mosca e che pertanto è, molto probabilmente, ricattabile. Ma se pure Flynn avesse parlato delle sanzioni con Kisljak, non avrebbe fatto altro che proseguire sulla linea annunciata dall’Amministrazione entrante, sostanzialmente dicendo ai russi di non preoccuparsi perché poi si sarebbe affrontata diversamente la questione. Ricattabile per cosa? La domanda non ha risposta.
27 gennaio. Trump e Comey cenano alla Casa Bianca. Sollecitato dal primo, il secondo ammette che il presidente non è indagato, ma esita a dirlo in pubblico. Lo stesso giorno Trump firma l’Ordine Esecutivo 13769 chiudendo per tre mesi le frontiere con Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen, bloccando per sei gl’ingressi dei profughi provenienti da qualunque Paese riservandosi poi di rinegoziare la questione Stato per Stato, e fermando a tempo indeterminato, ovvero fino a che non fossero risolte in maniera soddisfacente le questioni di sicurezza, l’arrivo dei rifugiati dalla Siria.
30 gennaio. Trump licenzia la Yates per avere ordinato agli avvocati del suo ministero di non attuare quanto previsto all’Ordine Esecutivo 13769, non per le rivelazioni (?) su Flynn.
13 febbraio. Flynn si dimette: si dimette non perché ha parlato al telefono con Kisljak delle sanzioni, ma per avere mentito al vicepresidente Mike Pence sui contenuti di quelle telefonate: aveva infatti detto che si trattava solo di convenevoli di rito. Se infatti avesse detto la verità, Pence non sarebbe andato in televisione a dire il contrario, ovvero a pronunciare (pur inconsapevolmente) una menzogna. Se avesse detto la verità, l’Amministrazione Trump, Pence in testa, avrebbe potuto difenderne l’operato dicendo che l’argomento del colloquio con Kisljak rientrava in quanto detto e ripetuto da Trump sia in campagna elettorale sia nei mesi della transizione.
14 febbraio. Trump e Comey parlano nello Studio Ovale dopo che, dirà poi Comey sotto giuramento, Trump ha allontano chiunque altro. Sotto giuramento, Comey afferma di avere capito che Trump avrebbe gradito l’abbandono di ogni indagine su Flynn. Del colloquio non ci sono testimoni.
4 marzo. Via Twitter, Trump accusa Obama di avere messo sotto controllo il suo telefono. Comey chiede al ministro della Giustizia Sessions di smentire.
7 marzo. Steele ricompare in pubblico.
20 marzo. In un’audizione alla Commissione sui servizi segreti della Camera federale, Comey conferma le indagini dell’FBI sui rapporti tra la campagna elettorale di Trump e la Russia.
9 maggio. D’accordo con Sessions e con il suo vice Rod J. Rosenstein, Trump licenzia Comey per la perdita di credibilità che l’FBI ha subito durante le non-indagini sulla Clinton. Rosenstein era il diretto superiore di Comey ed è stato lui a produrre i documenti decisivi per il suo licenziamento da parte del presidente.
11 maggio. In una intervista a Lester Holt dell’emittente televisiva NBC, Trump corregge un po’ il tiro e dice che con il licenziamento di Comey c’entra anche il “Russiagate”: ma non perché Comey si sarebbe rifiutato d’insabbiarle, bensì perché l’allora capo dell’FBI tardava maliziosamente a dire in pubblico che tra gl’indagati non vi era il presidente stesso. E aggiunge che per questo avrebbe licenziato Comey in ogni caso, indipendentemente dai pareri di Sessions e di Rosenstein.
8 giugno. Comey viene ascoltato dalla Commissione sui servizi segreti del Senato federale e riversa su Trump accuse pesantissime che fanno ipotizzare il reato di ostruzione della giustizia per il “caso Flynn”. Tutto in base al colloquio avuto con Trump senza testimoni. Trump avrebbe infatti dapprima espresso sentimenti di stima per l’operato di Comey, ma poi cambiato idea davanti al suo rifiuto di piegarsi al suo volere per il proscioglimento di Flynn. Ma è la parola di Comey contro quella di Trump. Mancano le prove e i riscontri. E Trump ribadisce che la sua irritazione è sempre stata esclusivamente dovuta alla riottosità sospetta di Comey nel dire in pubblico che lui, Trump, non era affatto indagato.
13 giugno. Sessions viene ascoltato dalla Commissione sui servizi segreti del Senato federale e respinge qualsiasi accusa di collusione e illeciti con la Russia. Ha incontrato sì l’ambasciatore russo, ma questo non è illecito. E non si dimette perché, a differenza di Flynn, sul punto non ha mentito al vicepresidente costringendo il vicepresidente a mentire al mondo (e il punto non è un commercio illecito, ma un rapporto lecito epperò celato).
15 giugno. The Washington Post lascia trapelare che stavolta anche Trump è indagato dal procuratore speciale sul “Russiagate” Robert S. Mueller III, peraltro amico ed ex collega di Comey, scelto per questo incarico da Rosenstein (l’uomo decisivo nel siluramenti di Comey). Il ministro Sessions, infatti, si è da tempo autoescluso da quell’indagine. Perché colpevolmente coinvolto, si dice in giro. O forse solo, com’è logico e giusto pensare, per non dare adito a cattivi pensieri? Qual è quel colpevole, infatti, che offre la gola alla lama del boia? Qualcosa di fondamentale però è cambiato. Trump è indagato per ostruzione della giustizia nel “caso Flynn”, non per collusioni con Mosca, di cui non si sono trovate prove.
16 giugno. Trump ammette ufficialmente di essere indagato. Lo è ufficialmente anche Kushner.
Certamente Trump si muove come une elefante in una cristalleria, parla e twitta troppo, predilige l’efficace “a umma umma” dell’esperto di consociativismo qual è al cerimoniale del Paese più importante del mondo. Ma questo non ne fa automaticamente un criminale, come invece vorrebbe chi, costruendo castelli di carte e imbastendo processi alle intenzioni, sta arrampicandosi sugli specchi per travolgerne definitivamente l’Amministrazione. Qualora poi emergessero fatti e reati veri, noi, come sempre, ci piegheremmo alla realtà senza nemmeno troppi rimpianti. Nel frattempo, continuiamo a raccontare solo la verità delle cose quella che ci ricorda che, per il momento, l’unico illecito accertato, l’unico vero “Russiagate”, è la cessione non autorizzata del 20% dell’uranio statunitense all’ente nazionale russo per l’energia nucleare, Rosatom, attraverso un bel sistema di scatole cinesi operato da Hillary Clinton Segretario di Stato a scopo di lucro personale. Quello su cui nessuno indaga.
Marco Respinti