Da “Libero” del 16 febbraio 2017. Foto da Il Cambiamento
Hanno teso una trappola a Donald Trump. Tecnicamente, si parla di impeachment per la Russian connection. Vuol dire che, poiché ha vinto democraticamente le elezioni, i Democratici vogliono spodestarlo con il vecchio strumento della propaganda in puro stile sovietico.
Paradossalmente, lo accusano di essere troppo amico di Vladimir Putin, che ai tempi dell’ Urss faceva parte del famigerato Kgb, di cui peraltro i nemici di Trump ora stanno utilizzando i metodi.
Nel mirino, per ora, ci sono i collaboratori più stretti della Casa Bianca. Si inizia con l’abbattimento delle prede di taglia medio-piccola, per studiare la reazione del capobranco e isolarlo.
A farne le spese per primo è l’ex generale e ormai ex consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, che aveva nascosto al vicepresidente Mike Pence di aver dato assicurazioni ai russi sull’alleggerimento delle sanzioni, proprio quando Barack Obama, ancora in carica, le stava inasprendo. Ma anche nel resto dello staff vi era chi intratteneva cordiali rapporti con funzionari dell’intelligence russa prima delle elezioni. Magari lavoravano per la distensione, tentavano di disinnescare il meccanismo da guerra fredda messo in azione dall’ex presidente.
È sufficiente a far nascere il sospetto, perfino fra i Repubblicani, che ormai al Cremlino siano in grado di disporre di troppe informazioni confidenziali su quanto si decide nelle segrete stanze di Washington. L’Fbi non fa nemmeno in tempo a interrogare tre persone, che le indagini sono già finite sui giornali e hanno fatto il giro del mondo. Il tentativo è di intaccare, fino a sgretolarla, la compattezza della maggioranza pro-Trump al Congresso degli Stati Uniti. E siamo soltanto agli inizi. Sebbene il dossier sia ancora incompleto, qualche stralcio ne è già emerso qua e là, soprattutto sul New York Times e sul Washington Post. L’incipit voleva essere un po’ cochon, con quella incredibile vicenda di piogge dorate che vedevano protagonisti il magnate newyorchese e qualche meretrice russa. Tutto smentito, ovviamente, benché l’elemento più preoccupante fosse la voce narratrice, quella della Orbis Business Intelligence, gestita da Christopher Steele, un ex 007 britannico che operava a Mosca.
Insomma, tutto indica che è in corso una mega-operazione di disinformazione, che vede impegnati i migliori professionisti del settore. Altro che fact checking. Magari prima condannano sdegnati le presunte fake news che avrebbero causato la sconfitta di Hillary Clinton alle elezioni.
Ma poi, siccome più che dal dovere di informare controllando i fatti e le fonti, molti giornalisti sono attratti dalla notorietà, cercano di inventarsi un nuovo Watergate.
In Italia, sono tattiche note e sperimentate, anche se alla lunga rivelano di essere fondate sulla menzogna. Ci era cascata perfino Camilla Cederna, che nel 1978 con un libro e le sue inchieste su L’Espresso riuscì a far dimettere anzitempo l’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone, salvo poi essere condannata per diffamazione perché aveva fabbricato accuse false. Però una giunta di sinistra le ha pur sempre dedicato un giardinetto a Milano.
Intanto in America si è dimesso il segretario al Lavoro Andrew Puzder, l’imprenditore della ristorazione fast-food, temendo di non ottenere sufficiente sostegno tra le file dei repubblicani per ottenere la conferma al Senato. Ma l’obiettivo è Trump. Si accettano scommesse, rigorosamente contro di lui. Fra il pubblico più interessato alla conclusione anzitempo del mandato alla Casa Bianca vi sono allibratori e biscazzieri.
Si puntano 10 sterline e, in caso di dimissioni, se ne vincono 11. Segno che l’ evento è considerato piuttosto probabile, come conferma anche l’aumento delle giocate.
Gli stanno costruendo intorno una macchinazione e a nulla vale protestare, come fa il magnate su Twitter: «Il vero scandalo è che informazioni riservate vengano illegalmente distribuite dall’intelligence come caramelle. Molto anti-americano!». Il presidente degli Stati Uniti sa di essere diventato un bersaglio e ora deve togliersi dalla linea del fuoco, dove finora si trovava soprattutto il suo chief strategist Steve Bannon, divenuto il catalizzatore dell’ odio degli avversari, che lo accusano di essere l’ideologo dell’estrema destra.
La realtà è che anche i Repubblicani, ora, sono sulla difensiva. Per smarcarsi, l’amministrazione Usa prova a ribaltare le accuse: fu sotto l’amministrazione di Barack Obama, ricorda Trump, che «la Crimea fu presa dalla Russia». Dunque, polemizza, «Obama sulla Russia è andato troppo morbido?». Ma il rischio è che, a forza di marcare le distanze, il processo di riavvicinamento fra le due grandi potenze subisca un rallentamento. Comunque vada, Trump sta giocandosi una rischiosa partita alla roulette russa.
Andrea Morigi