Da La bianca Torre di Ecthelion del 23/09/2018. Foto da articolo
Qualcosa di nuovo sul fronte orientale, e di portata storica: «Per la prima volta, dopo tanti decenni, oggi tutti i vescovi in Cina sono in comunione con il vescovo di Roma», ha detto il Segretario di Stato vaticano, mons. Pietro Parolin. Ieri, infatti, la Santa Sede ha riconosciuto sette vescovi validi per Roma ma ordinati illecitamente da Pechino, gli ultimi sette: i monsignori Giuseppe Guo Jincai, Giuseppe Huang Bingzhang, Paolo Lei Shiyin, Giuseppe Liu Xinhong, Giuseppe Ma Yinglin, Giuseppe Yue Fusheng e Vincenzo Zhan Silu. I cattolici cinesi sono infatti spaccati in due dal 1951, quando la Cina comunista ruppe con Roma: da un lato l’Associazione patriottica cattolica cinese creata e controllata dal regime dal 1957, dall’altra la Chiesa Cattolica clandestina, fedele, perseguitata, irta di martiri. Ma da ieri almeno la Chiesa gerarchica cinese torna a essere una.
L’evento storico è solo questo, non l’inesistente scoop del Wall Street Journal, smascherato su queste pagine domenica scorsa, quando Cina e Chiesa sembravano pronte a un accordo tombale di riconoscimento reciproco, con una delegazione vaticana in arrivo a Pechino. Fa testo il comunicato stampa ufficiale della Santa Sede, che definisce quello di ieri «un Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi». E basta. Per di più segreto, come ricorda il sociologo delle religioni Massimo Introvigne sul quotidiano internazionale specializzato Bitter Winter. Nessuna legittimazione vaticana, insomma, del regime neo-post-comunista cinese che fa guerra a ogni religione.
Del resto, già Papa Benedetto XVI stabilì che fosse Pechino a scegliere i vescovi cinesi e il Vaticano ad approvarli. O a bocciarli, come accaduto in diversi casi. Ora quindi, mentre la Chiesa filocomunista e quella romana restano nemiche, almeno le diocesi cinesi avranno ognuna un solo vescovo. Compromessi così la Chiesa li ha peraltro sempre conclusi, dal Medioevo al Settecento illuminista e all’Ottocento delle Rivoluzioni, quando in minoranza o minacciata. E l’esperienza dell’Est europeo con san Giovanni Paolo II dice che lavorare dall’interno alla fine paga. Come ha detto il portavoce della Sala stampa vaticana, Greg Burke, «questa non è la fine di un processo. È l’inizio!». Il via libera al regime non c’è, sette vescovi cattolici in più sì. E Taiwan (la Cina riconosciuta dalla Santa Sede) rilancia chiedendo che nella Cina continentale vi sia più libertà religiosa.
Non la pensa però così il cardinale Giuseppe Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, simbolo vivente della resistenza a ogni compromesso, da sempre critico della gestione Parolin, di cui venerdì ha persino chiesto (esagerando) le dimissioni. In una dichiarazione fatta pervenire ad AsiaNews, l’agenzia di stampa ufficiale del Pontificio Istituto per le Missioni Estere, definisce l’accordo un «capolavoro» per «dire niente con tante parole». Provvisorio, non si dice che durata avrà; sarà valutato periodicamente, ma non si dice quando; e le due parti potranno modificarlo o anche annullarlo. Sul resto, silenzio. Più spaventata che adirata, è la voce di chi guarda in faccia il comunismo cinese tutti i giorni e teme di essere sacrificato sull’altare della distensione.
Marco Respinti