Da “La bianca torre di Echtelion” del 30 agosto 2017. Foto da articolo
Francamente l’unico dubbio è se rubricare il nuovo furore iconoclasta che ha scatenato la “guerra delle statue”, le voglie degli anticattolici e il cupio dissolvi dei cattolici adulti alla voce “comiche” o alla voce “scemenza”.
La cronistoria di questo delirio registra infatti una nuova vittima eccellente: nientemeno che una pietra miliare della storia del cinema, quel Via col vento (Gone with the Wind) vincitore di otto Oscar che nel 1939 il regista David O. Selznick (1902-1965) trasse dall’omonimo romanzo di Margaret Mitchell (1900-1949) ‒ la quale ci vinse il Pulitzer nel 1937 e fu candidata al Nobel l’anno dopo ‒ che tutti hanno visto e rivisto senza scandalo, ma che adesso un cinema di Memphis, in Tennessee, l’Orpheum Theater, ha deciso di eliminare dalla programmazione perché “razzista”.
Ci vuole però un pelo sullo stomaco lungo così. Davvero qualcuno pensa che le nostre nonne e le nostre mamme, estasiate dal beffardo e aitante Rhett Butler interpretato da Clark Gable (1901-1960), siano state delle suprematiste bianche? E allora perché bloccare il film? Forse per la ragione esattamente opposta.
Forse perché il Sud dei “sudisti” che ne esce è diverso dall’inferno descritto dai professionisti dell’antirazzismo; forse perché quella rappresentazione pur cinematografica è un tantino più vera di ciò che i liberal millantano. Per la verità la trama privilegia il filone rosa: il complicato rapporto di amore e odio che la frivola e intrigante Rossella O’Hara, interpretata da Vivien Leigh (1913-1967), intrattiene con molti maschi della pellicola. Ciononostante qua e là emerge un mondo di gentiluomini e tradizioni, orgoglio e patriottismo, e più servaggio che schiavitù. Sempre una cosa brutta, per carità: ma quel che al film non si perdona sono per esempio certi siparietti gustosi e verosimili come quelli in cui “Mamy”, sostanzialmente la tata della famiglia, nera, interpretata dalla cantante e attrice Hattie McDaniel (1895-1952), figlia di ex schiavi, la prima afro-americana premiata con l’Oscar e proprio per quel ruolo, cazzia di brutto “la padrona” Rossella insegnandole come si comporta una vera signora e ricacciandole scorbutica in gola le sue petulanze. Una scena verosimile, sì. Perché spesso i neri a servizio dai bianchi venivano educati, apprendevano a leggere e a scrivere, e imparavano persino un mestiere. Tant’è che il presidente Abraham Lincoln (1809-1865), uomo ben diverso da come lo si descrive (si veda il Dizionario elementare del pensiero pericoloso, curato da Gianpaolo Barra, Mario A. Iannacconne e il sottoscritto [Istituto di Apologetica, Milano 2016], ne temeva fortemente la concorrenza a danno dei bianchi.
Se non fosse vero non si capirebbe infatti perché Frank Loper, nero, nato nella piantagione di Briarfield, vicino a Natchez in Mississippi, ex schiavo del primo e unico presidente degli Stati Confederati d’America, Jefferson Davis (1808-1889), fosse amato e adorato dai nipoti del suo “padrone” i quali si facevano fotografare accoccolati sulle sue spalle e sulle sue ginocchia. La Guerra di secessione (1861-1865), che non venne affatto combattuta dai “nordisti” per debellare la schiavitù, era già finita da un pezzo quando Frank restava ancora legato da amicizia profonda con i Davis; e il presidente Davis era già morto da un pezzo quando Frank restava legato da amicizia profonda con la di lui famiglia. Né si capirebbe come gli ex schiavi di tale signora Shelby di Vicksburg, in Mississippi, possano essersi fatti fotografare come amici al suo fianco più o meno nel 1885, cioè 20 anni dopo la fine della guerra e 22 dopo l’emancipazione dei neri proclamata il 1° gennaio 1863 da Lincoln (un decreto che però non liberò nemmeno uno schiavo nero). Né ancora come mai tanti neri abbiano volontariamente vestito la divisa “sudista”, come per esempio racconta Black Confederates curato da Charles Kelly Barrow, J. H. Segars e R. B. Rosenburg (Pelican, Gretna [Louisiana] 2004). Tra loro vi era Bill Yopp, che dopo il conflitto tornò a trovare il proprio antico “padrone” nella Casa di riposo per i veterani confederati di Atlanta, in Georgia, con doni per tutti gli ospiti. Di questi bozzetti parlano i libri e ci sono persino foto, pubblicate pure nell’“indigesto” ma utilissimo The South Was Right! di James Ronald Kennedy e Walter Donald Kennedy (Pelican, 1994).
Insomma, Via col vento fa paura solo a chi ha la coda di paglia. Come altro definire infatti i fanatici che, già da qualche anno, hanno censurato la popolare serie tivù degli anni 1980 Hazzard (The Dukes of Hazzard), quelle puntate light prodotte dalla Warner Bros. in cui i cugini Bo e Luke si beffano dello sceriffo Rosco Coltrane e del trafficone Boss Hogg sfrecciando su una Dodge Charger R/T rossa fiammante che sul tetto ostenta una bandiera “sudista” e il nome “General Lee”?
Piccolo e grande schermo a parte, quello che è in gioco davvero è la riscrittura della storia secondo un piano preciso che parte addirittura da Cristoforo Colombo (1451-1506), che aprì la strada all’evangelizzazione del Mondo Nuovo, ma che ora viene accusato d’“indianicidio” e prossimo allo sfratto dal Central Park di New York.
Nel settembre 2016, il contagio di questa follia ha colpito anche la cattedrale nazionale di Washington, episcopaliana ‒ la cattedrale dei santi Pietro e Paolo ‒, che ha provveduto a rimuovere un vetrino con la bandiera confederata dalle magnifiche vetrate in cui si raccontano gli episodi salienti della storia americane e si onorano gli eroi della nazione, tra cui pure i “sudisti”.
Ma cosa faranno i nuovi talebani del politicamente corretto quando scopriranno che vi sono stati anche padroni neri di schiavi neri (vedi Larry Koger, Black Slaveowners: Free Black Slave Masters in South Carolina, 1790-1860, University of South Carolina Press, Columbia, 1985) e prima ancora padroni bianchi di schiavi bianchi (vedi Don Jordan e Michael Walsh, White Cargo: The Forgotten History of Britain’s White Slaves in America, New York University Press, New York 2008)?
Marco Respinti