Card. Joseph Frings, Cristianità n. 383 (2017)
Nota introduttiva
Il testo che pubblichiamo di seguito ha una sua storia. Si tratta di una conferenza tenuta a Genova il 20 novembre 1961 su sollecitazione dell’arcivescovo locale, il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), uno dei prelati più importanti e influenti della Chiesa, non soltanto di quella in Italia, noto per le sue posizioni conservatrici.
Formalmente, l’autore del discorso risulta l’arcivescovo di Colonia, il cardinale Joseph Frings (1887-1978), ma in realtà quest’ultimo affidò la stesura del testo della conferenza al suo collaboratore di fiducia, l’allora giovane teologo don Joseph Ratzinger (1). Peraltro, il cardinale neppure lo lesse personalmente a Genova, per un problema imprevisto agli occhi.
Il testo venne pubblicato dalle edizioni della Fondazione Columbianum di Genova alla fine di quell’anno e mai più ripreso nei decenni successivi. Data la sua importanza ci sembra utile riproporlo ai lettori, soprattutto a chi è interessato a comprendere come sia nata l’esigenza di una nuova evangelizzazione dell’antica Europa cristiana e come questa esigenza sia stata affrontata dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965).
Il discorso toccò diversi punti. Anzitutto svolse una sintesi storica di quanto accaduto in Europa nei cento anni successivi al Concilio Vaticano I (1869-1870) con particolare riferimento al diffondersi del pensiero anticristiano che allora aveva il volto del liberalismo e dello storicismo, che avrebbero favorito ai primi del Novecento la nascita del modernismo all’interno della Chiesa. Nel periodo fra le due guerre mondiali il liberalismo che aveva dominato fino a quel momento entrò in crisi e venne sfidato da altre due ideologie, il marxismo e il nazionalismo, che avrebbero contribuito a dar vita alla «guerra civile europea» del 1914-1945. Con la sconfitta del nazionalsocialismo il liberalismo «americano» tornò in auge e cominciò il lungo confronto con i regimi del socialismo reale destinato a durare fino al 1989. La Chiesa nel secolo XX si trovò all’interno di un mondo in rapida trasformazione e dovette adattare il proprio linguaggio a quello imposto dal progresso della tecnica, divenuto evidente e veloce nel secondo dopoguerra.
La Chiesa dovette fronteggiare anche la sfida proveniente dalle religioni e dalle civiltà asiatiche, che spesso confondevano il cristianesimo con l’Occidente e avevano buon gioco nell’attribuire alla fede in Cristo gli errori e gli orrori dell’Occidente, in particolare le due guerre mondiali con le decine di milioni di morti provocate e le enormi devastazioni procurate.
Molto significativa è la critica che Ratzinger, a questo punto del discorso preparato per il card. Frings, fa al relativismo, e che sembra anticipare i problemi dell’attuale società post-moderna e successiva al tramonto delle ideologie.
Egli ricorda infatti che relativizzare ciò che è soltanto apparentemente assoluto può essere un aspetto positivo del relativismo, che invece si oppone direttamente alla fede quando non ammette l’esistenza di verità assolute.
Tecnica e scienza sono diventate, secondo il giovane teologo bavarese, aspetti importanti di quelle ideologie che hanno modificato il senso comune dei popoli durante l’età della modernità, prima entusiasmando e poi deludendo milioni di persone che avevano loro creduto e avevano fatto proprie le diverse visioni del mondo in voga nei duecento anni che separano la Rivoluzione del 1789 dalla rimozione del Muro di Berlino del 1989.
Se si vuole rievangelizzare, occorre allora sciogliere i nodi prodotti dalla modernità. In questa prospettiva, il card. Frings cita i due grandi movimenti che nel secolo XX hanno reso feconda l’azione apostolica della Chiesa: il movimento liturgico, diffuso soprattutto nell’Europa del Nord, e quello mariano, più diffuso nell’Europa latina. Oltre che dal risveglio avviato da questi due importanti movimenti, il Novecento è contrassegnato dal dolore profondo di tanti fedeli, di cui si è fatta interprete anche la massima autorità della Chiesa, di fronte ai tanti cristiani morti martiri in questo secolo segnato da quelle che Robert Conquest (1917-2015) ha chiamato «idee assassine» (2): «La testimonianza del dolore è la testimonianza della nostra vita invincibile. Servire questa vita sarà il compito del futuro Concilio, che, come un concilio di rinnovamento, avrà non tanto il compito di formulare dottrine, quanto quello di rendere nuovamente e più profondamente possibile nel mondo di oggi la testimonianza della vita cristiana».
Note:
(1) Cfr. Benedetto XVI, Ultime conversazioni, a cura di Peter Seewald, trad. it., Garzanti, Milano 2016, p. 118.
(2) Cfr. Robert Conquest, Il secolo delle idee assassine, trad. it., Mondadori, Milano 2001.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II
di fronte al pensiero moderno
Card. Joseph Frings (*)
A. Due riflessioni preliminari
1. Concilio ed epoca presente
I Concili avvengono sempre in un tempo ben determinato, nel quale essi danno nuova autorità alla parola di Dio, proprio secondo la forma richiesta da quel determinato tempo.
È chiaro che le loro definizioni hanno una portata valida per tutti i tempi, poiché nella parola condizionata dal tempo e dalla storia s’incarna la verità eternamente valida: tuttavia, essi recano inequivocabilmente l’impronta di un’epoca particolare, in cui l’esistenza di una ben definita situazione spirituale rende necessaria la formulazione più penetrante di un pensiero, il conio di una parola, che dovrà poi entrare stabilmente nel possesso della Chiesa, e ricordarle altresì il preciso momento in cui quel pensiero e quella parola hanno preso forma.
Se in ogni tempo fu compito dei Concili piegare l’insofferente intelletto umano e assoggettarlo di nuovo all’obbedienza di Cristo (2 Cor. 10,5), servendosi delle armi spirituali che il dato momento forniva, per portare la Chiesa a un nuovo sviluppo e infine alla misura dell’età piena di Cristo (Ef. 4,13), ciò vale principalmente per un Concilio come questo, il cui compito, definito dallo stesso Santo Padre [san Giovanni XXIII, 1958-1963], è quello dell’aggiornamento della Chiesa. Sarà pertanto di fondamentale importanza per la piena riuscita di questo Concilio esaminare accuratamente le componenti spirituali del mondo di oggi, sul quale esso deve nuovamente piantare la fiaccola del Vangelo e fare in modo che la sua luce non resti celata sotto il moggio di forma invecchiata, ma brilli a perdita d’occhio su tutti coloro che vivono nella casa del tempo presente (Mt. 5,15).
2. Trasformazioni della situazione spirituale posteriore al primo Concilio Vaticano
Qual è dunque la condizione spirituale di oggi, cui il Concilio deve rendere conto da un punto di vista cristiano? Sarà utile, a questo proposito, tentare anzitutto un breve sguardo retrospettivo. Dall’ultimo Concilio, il Vaticano I [1869-1870], sono ormai passati quasi cento anni. Tale periodo, se lo consideriamo dall’angolo visuale della storia universale, è breve; considerato invece da quello della rapidità scatenata con cui oggi la storia avanza, appare nello stesso tempo assai lungo. Allora era in forte ascesa la stella del liberalismo — dovremmo chiamarla piuttosto una cattiva stella —, che dominava nella politica. Nell’economia esso aveva raggiunto i suoi primi grandi successi, e anche nel campo della teologia, specialmente con la sempre più marcata supremazia dello storicismo, cominciava a celare i suoi primi trionfi, che in seno al pensiero cattolico portarono, sullo scorcio del secolo, a quella crisi che è entrata nella storia con il nome di modernismo.
Invero, la rinascita della teologia e di una sana filosofia a essa indispensabile si era solidamente affermata dopo le gravi scosse provocate dall’Illuminismo, ma non si era in alcun modo superata la inquieta incertezza degli inizi di tale rinascita che, per difendersi dagli attacchi del liberalismo, ondeggiava fra gli estremi del razionalismo e del fideismo. Oltre a ciò, il materialismo stava già gagliardamente bussando alle porte in pensatori come Feuerbach [Ludwig Andreas, 1804-1872] o perfino come Haeckel [Ernst Heinrich, 1834-1919]. Quanto è attuale tutto ciò!
Non dobbiamo tuttavia trascurare il fatto che da allora sono avvenute molte trasformazioni. In verità, il Risorgimento italiano rumoreggiava già poderosamente ai confini dello Stato Pontificio, quando i Padri del primo Concilio Vaticano erano riuniti nella Città Eterna per le loro consultazioni; ma il millenario edificio del Patrimonium Petri stava ancora in piedi. Il suo crollo, che seguì immediatamente il Concilio, o meglio ne causò prematuramente la fine, ha provocato senza dubbio una delle più importanti modificazioni di struttura nella Chiesa del tempo moderno. Consimili mutamenti del resto avvennero anche in grandi settori del rimanente mondo cattolico: la Francia sperimentò la vittoria del laicismo e la separazione della Chiesa dallo Stato; in Germania la caduta delle monarchie portò rilevanti spostamenti nella situazione politica della Chiesa; nell’America Latina crebbero visibilmente le forze che volevano escludere la Chiesa dalla vita pubblica; negli Stati Uniti il cattolicesimo, mentre acquistava un peso sempre più determinante nel mondo intero, orientava i rapporti con lo stesso mondo in maniera assai differente dal cattolicesimo europeo. Attraverso queste manifestazioni, che qui vengono appena accennate, il rapporto del cattolicesimo con il mondo si è ampiamente trasformato negli ultimi cento anni; non certo nella sua sostanza, bensì in elementi assai importanti della sua forma concreta.
Principalmente, però, due guerre mondiali ci dividono dall’età del primo Concilio Vaticano, con tutte le conseguenze sulla vita materiale e spirituale dell’umanità. Sotto l’aspetto che ora ci interessa, la Prima Guerra Mondiale [1914-1918] portò con sé la fine di quella forma di liberalismo che fino allora aveva dominato. Il mondo liberale ebbe un crollo e la sua superba fiducia andò in frantumi fra le macerie della Grande Guerra. La caduta del liberalismo faceva sperare in una rinascita della fede e della vita cattoliche, e di ciò parleremo oltre, ma, almeno esteriormente, si dimostrarono più forti principalmente due altre ideologie, che apparivano alla ribalta al posto del liberalismo, messo a riposo: il marxismo materialistico, che in Russia poté affermarsi politicamente con la forza; e un nazionalismo a tinta romantica, che in Germania, e più moderatamente in Italia, salì al potere, e nella Seconda Guerra Mondiale [1939-1945] celebrò i suoi trionfi pazzi e disumani.
La disfatta di questo movimento, e la susseguente scoperta spaventosa dei suoi errori, fece riapparire in miglior luce il liberalismo, già ripudiato, cosicché oggi si possono di fatto riconoscere in molti campi gl’inizi di una restaurazione aggiornata del liberalismo. Molto di ciò che dopo il 1918 sembrava superato ritorna sui propri passi; pertanto oggi [1961] siamo in parecchie cose assai più vicini alla situazione del 1870 di quanto si potesse presumere anche solo vent’anni fa.
Osservando perciò i fatti più da vicino, si delinea una continuità della situazione spirituale che, sulle prime, in considerazione del ritmo accelerato del nostro tempo, potrebbe ritenersi appena possibile. Nella storia, però, non si dà mai un ritorno puro e semplice del passato, anche se ciò che è avvenuto una volta non si può annullare e in certo qual modo continua a produrre i suoi effetti. Perciò il nostro tempo, nonostante qualche ritorno al passato e al più recente, è tuttavia sempre un nuovo tempo, condizionato dalle forze molteplici di un secolo ricco di mutamenti che operano in esso.
Forse si potrebbe effettivamente dire che nulla di ciò che ha plasmato l’anima del nostro tempo non fosse già in germe nella condizione spirituale del 1870. Ma i germi si sono sviluppati e oggi avvertiamo il loro significato in una forma che allora non si sarebbe ancora potuto presagire. Cerchiamo ora di comprendere qualcuno dei princìpi fondamentali che stanno alla base della situazione spirituale del nostro tempo, per vedere quale compito spetti in questa epoca al Concilio, che è la bocca della Chiesa docente.
B. Il Concilio e le componenti spirituali del mondo moderno: la situazione spirituale dell’umanità alla vigilia del Concilio.
1. L’esperienza dell’unità dell’umanità
L’esperienza forse più straordinaria, che dà una profonda impronta alla situazione spirituale del momento, è questa: il mondo è diventato piccolo e, di conseguenza, si è creata nell’umanità un’unità del tutto nuova. Certo, questa esperienza era già in cammino almeno fin dalla scoperta dell’America, ma soltanto oggi, con le inaudite possibilità della tecnica, essa ha raggiunto la sua straordinaria attualità, arrivando anche alla conoscenza dell’uomo della strada.
Chi fa la prima colazione in Germania, per la seconda può già trovarsi in Egitto e per la prossima colazione in qualche località del lontano Oriente. Chi a Londra ascolta al televisore un discorso del presidente degli Stati Uniti d’America può percepire le sue parole prima ancora di chi sta ai piedi del presidente stesso, perché le onde radiofoniche trasmettono la parola più celermente di quelle acustiche. Radio e televisione portano in ogni casa il mondo intero, e inoltre in ogni grande città si possono incontrare uomini provenienti da ogni parte della terra. Il mondo si è davvero rimpicciolito. Da ciò proviene un’altra constatazione: mentre, fino a un tempo recente, l’umanità era divisa in un gran numero di civiltà nazionali di carattere particolaristico, oggi una città della Cina o del Giappone non differisce sostanzialmente nel suo aspetto da una del Sudafrica, dell’Europa o dell’America. Le civiltà particolari vengono assorbite in crescente misura da una uniforme civiltà tecnica che, mentre lascia sussistere i singoli dialetti, costituisce in blocco qualcosa come un unico linguaggio spirituale.
L’umanità intera ragiona e parla oggi secondo le categorie del progresso tecnico di conio europeo-americano e con ciò è entrata globalmente in quello stadio di «centralizzazione» che al tempo di Gesù si era raggiunta nel bacino del Mediterraneo con l’unitaria civiltà ellenistica.
È chiaro che una tale condizione offre alla Chiesa nuove possibilità, ma anche compiti e pericoli nuovi. In quanto catholica, essa è già sempre stata fondamentalmente in rapporto con l’umanità. L’evoluzione verso l’unità del genere umano che si svolge sotto i nostri occhi le offre nuove prospettive per l’adempimento della sua missione universale. Se talora il momento storico è anche espressione di una particolare vocazione divina, in un Kairos che dobbiamo intuire e cogliere, allora è chiaro che il compito particolare della Chiesa di oggi è lo sguardo sull’umanità intesa come un tutto. Essa dovrà diventare «Chiesa universale» in un senso ancora più pieno di quello che non sia stata finora. Con la costituzione di gerarchie locali nei Paesi di missione è stato compiuto un passo importante in tal senso: altri ne dovranno seguire.
Ma bisogna riflettere soprattutto su quanto segue: quando il cristianesimo iniziò il suo cammino nel mondo, trovò dappertutto stabilita la cosiddetta Koinè, cioè l’unità di linguaggio della civiltà greco-romana. Questa lingua dal punto di vista spirituale portava chiara l’impronta della filosofia panteistico-immanentistica della Stoà. Ma era la lingua universalmente conosciuta, nella quale pensavano e parlavano gli uomini di ogni nazione. L’evangelizzazione cristiana non esitò a impadronirsi di tale lingua per annunziare con essa il messaggio di Gesù Cristo. In tal modo, la Koinè dell’antico paganesimo diventò definitivamente una lingua cristiana vera e propria.
La Chiesa oggi si vede di fronte a una nuova specie di Koinè, cioè al pensiero e al linguaggio universale prodotti dal progresso della tecnica, che hanno validità perfino al di là dei confini stabiliti dalla Cortina di Ferro con l’altra parte della umanità. Non dovrà la Chiesa compiere uno sforzo del tutto nuovo per servirsi di questa Koinè?
In relazione al problema missionario, si parla molto dell’adattamento della comunicazione del tesoro della fede alle diverse civiltà nazionali. Senza negare la stabile importanza di questo problema, del quale parleremo ancora, ci si può tuttavia domandare se non permanga almeno altrettanto urgente il dovere di rivolgere lo sguardo a una nuova forma dell’annuncio cristiano, per il cui mezzo il pensiero dell’odierna civiltà a carattere tecnico e unitario sia conquistato a Gesù Cristo e la nuova Koinè dell’umanità venga plasmata in un unico dialetto cristiano.
Un altro pensiero s’impone. La vittoria del progresso tecnico rappresenta di per sé una vittoria dell’europeismo; ma essa è accompagnata da un progressivo indebolimento degli europei. Al giorno d’oggi sarebbe inconcepibile il tentativo, intrapreso mezzo secolo fa dal teologo protestante Ernst Troeltsch [1865-1923], di dimostrare la superiorità del cristianesimo su tutte le altre religioni partendo dalla superiorità della civiltà europea, che il cristianesimo aveva portato con sé. Vi si oppone l’esperienza di due guerre mondiali, nelle quali si manifestarono il baratro profondo e le oscure possibilità della civiltà europea.
La spaventosità di queste guerre e la crudeltà esercitata dai popoli cosiddetti cristiani hanno prodotto nel mondo non cristiano un dubbio profondo in rapporto al cristianesimo e alle sue possibilità di trasformare l’uomo singolo e il mondo. L’asiatico, che qui vogliamo particolarmente considerare, non fa al riguardo differenza alcuna fra cristiani e increduli che esistono nei Paesi cristiani, e non è pertanto preparato a fare una netta distinzione tra la fondamentale rettitudine del cristianesimo e l’effettiva defezione dei cristiani.
Egli si richiama a questa realtà: duemila anni di storia cristiana furono continuamente ricolmi di rumori di battaglie e di spargimento di sangue, di crudeltà, di intolleranze e di sanguinose persecuzioni verso i fedeli di altre religioni. All’opposto egli si richiamerà al genio paziente dell’India, al sorriso di Budda [566-486 a.C.], fatto di rinunzia e di perdono, e vi troverà una promessa di pace per l’umanità, più credibile di quella che il cristianesimo può offrire. L’abdicazione del cristianesimo presente sarà per lui una ulteriore conferma della validità del proprio passato nazionale e religioso. Sicché oggi noi sperimentiamo il fenomeno paradossale che, unitamente alla vittoria di un progresso tecnico dell’umanità, si assiste altresì a una rinascita, sebbene limitata, delle singole civiltà nazionali: l’America latina è presa da un’ondata di «indianismo», i popoli arabi cercano nuovamente di approfondire l’eredità del Corano, il buddismo e l’induismo cominciano perfino ad accaparrarsi l’anima dell’uomo d’Occidente. Per chi conosce le cose, tutto ciò ha un accento alquanto sospetto, perché a tutti questi movimenti si è di fatto mescolata una buona parte dell’eredità spirituale del cristianesimo, da essi tacitamente assimilata, e spesso solo da questa inconscia assimilazione ha avuto origine il loro attraente splendore. Non sarebbe tuttavia saggio disconoscere i valori specifici di quell’elemento estraneo di cui si è qui parlato, sia esso anteriore al o al di fuori del cristianesimo.
Tutto ciò di riscontro ha un’effettiva portata anche sulla coscienza del cristianesimo, che finora, sotto l’impressione della potenza politica europea, è stato troppo proclive ad attribuire una certa assolutezza all’eredità culturale dell’Occidente, cosa che in certo qual modo rendeva più facile credere all’assolutezza del cristianesimo stesso.
Il crearsi di nuove prospettive di ampiezza universale ha tolto ogni illusione all’uomo dell’Occidente e gli ha fatto conoscere i limiti della sua importanza culturale e storica. In pari tempo gli ha tolto però uno dei più importanti sostegni esteriori della fede nell’assolutezza del cristianesimo e lo ha esposto a un relativismo che è uno dei tratti più caratteristici della vita spirituale del nostro tempo e che, sotto sotto, arriva a intaccare le file degli stessi credenti. Ma non sarebbe bene illudersi: il relativismo non può essere un male in tutto e per tutto. Quando contribuisce a riconoscere la relatività di tutte le forme della civiltà umana, portando tutto e tutti a una reciproca discrezione, in modo che nessuno pretenda di dare carattere di assolutezza alla propria eredità umana e storica, allora esso può giovare a una nuova comprensione fra gli uomini, aiutando ad aprire confini che finora sembravano chiusi e impenetrabili.
Quando il relativismo aiuta a riconoscere ciò che è precario e perciò mutevole nelle forme e nelle istituzioni puramente umane, allora può contribuire a liberare ciò che è veramente assoluto dalle strettoie dello pseudo-assoluto e farlo risplendere nella sua genuina purezza. Solo quando sopprime ogni valore assoluto, e non ammette più che mera relatività, il relativismo è senza dubbio una negazione della fede.
Quanto è stato qui sopra detto può stimolare tutti a un cristiano esame di coscienza per individuare umilmente uno degli aspetti spirituali più significativi e uno dei compiti più reali dei quali il Concilio dovrà occuparsi: aprire cioè la Chiesa, ancora di più di quanto non sia stato fatto finora, a quella grande molteplicità dello spirito umano che le spetta in quanto cattolica. Infatti i Padri la paragonano volentieri alla Sposa che il Salmista chiama «rivestita di vario ornamento». In ogni caso non bisognerà dimenticare che il vastissimo movimento per l’unità, che si verifica oggi nell’umanità, è altresì accompagnato da una nuova accentuata valutazione dei particolari valori nazionali dei popoli extra-europei destatisi recentemente all’autocoscienza.
La Chiesa del nostro tempo deve considerare con attenzione questi due orientamenti, perché entrambi possono essere utilizzati per i suoi compiti. Essa, intesa come l’unico popolo nuovo formato da tutti i popoli, sta continuamente cercando di imprimere nell’umanità il segno dell’Unità, e di adempiere la sua missione di pace al di là di ogni frontiera, nell’unità della fede e del culto. Intesa come il «vero popolo spirituale», che non coincide in concreto con nessun particolare popolo della terra o della storia, ma si fonda sulla nuova nascita dallo Spirito e dall’acqua (cfr. Gv. 3,5), essa deve altresì rimanere aperta alla grande molteplicità degli esseri umani e avvalorare nel superiore ambito dell’unità la mirabile legge della molteplicità. Al tempo in cui il cattolicesimo è diventato veramente unitario, e quindi veramente cattolico, la Chiesa dovrà sempre più impegnarsi a far sì che non tutte le leggi abbiano ugual valore per ciascun Paese; che soprattutto la liturgia, mentre da una parte deve essere chiaro specchio di unità, risulti in pari tempo espressione appropriata della spirituale individualità dei singoli popoli, e ciò per rispondere al divino mandato di condurre gli uomini a un «culto veramente ragionevole» (cfr. Rm. 12,1).
Ne verrà di conseguenza un più saldo irrobustirsi dell’autorità episcopale, che di fatto è territorialmente determinata e perciò rivolta ai particolari compiti delle singole Chiese, ma in pari tempo una più efficace unione degli elementi singoli con l’intero episcopato, per introdursi così definitivamente in quella unità piena che ha il suo stabile centro nella sede di Pietro.
2. L’esperienza tecnica
Il linguaggio di unità spirituale in cui s’incontra l’umanità di oggi è stato precedentemente caratterizzato con il nome di progresso tecnico o anche di civiltà tecnica. Con ciò abbiamo finora considerato unicamente un fenomeno dell’unità in quanto tale. Ma ora dobbiamo chiederci con maggiore precisione in che modo questo progresso sia costituito nel suo interno e specialmente quali effetti esso produca sugli uomini.
La domanda è di così vaste proporzioni che, nel campo ristretto in cui possiamo muoverci, dobbiamo accontentarci di un solo accenno, che per noi è però particolarmente importante, in quanto si riferisce alla particolare condizione religiosa dell’uomo di oggi.
Riflettiamo su quanto segue: in tutte le civiltà, che si sono succedute fin qui, l’uomo è vissuto in un rapporto diretto e immediato con la natura. Nella maggior parte delle professioni che si aprivano dinanzi a lui egli era portato a incontrarsi in un modo semplice e diretto con la natura in quanto tale. Dopo l’avvento della tecnica si sono avuti enormi cambiamenti in questo campo. La trasformazione tecnica del mondo ha avuto cioè questa conseguenza: che di solito l’uomo non ha più a che fare con la natura nella sua semplice immediatezza, ma viene a contatto con essa soltanto attraverso la mediazione dello strumento tecnico. Un elemento come l’acqua, per esempio, non gli arriva più direttamente dalla sorgente o dalla fonte, ma attraverso un sistema di tubazioni, cioè attraverso i molteplici filtri di opere umane. E così dicasi di quasi tutte le opere della vita quotidiana. Il mondo con cui egli ha a che fare porta impresso il volto dell’uomo; è già stato da lui precedentemente elaborato, ha ricevuto la sua concreta impronta. Solo in qualche circostanza l’uomo viene a contatto immediato con la natura, mentre s’incontra invece di continuo con la propria opera e con sé stesso. Con una frase un po’ pungente potremmo dire: egli non incontra più l’opera di Dio, ma quella degli uomini che vi si è sovrapposta. È chiaro che ciò ha ripercussioni decisive sul suo intero atteggiamento spirituale. Nella storia dell’umanità l’incontro con la natura fu sempre uno dei più vitali sbocchi dell’esperienza religiosa: infatti, secondo la parola della Scrittura, l’invisibile essenza di Dio può essere riconosciuta attraverso le sue opere «fino dalla Creazione del mondo» (Rm. 1,20).
Se dunque l’accesso alla natura è profondamente modificato o cambiato del tutto, viene inaridita una delle primordiali sorgenti della realtà spirituale. Il fatto che l’ateismo dell’evo contemporaneo si sia potuto diffondere anzitutto nell’ambiente tecnico dei lavoratori dell’industria, e vi si sia affermato nel modo più vigoroso, ha certamente varie spiegazioni, a cominciare dalle ingiustizie compiute dal primo capitalismo, ma una delle più importanti sta proprio qui.
Bisognerà certo guardarsi bene dal tacciare la tecnica di eresia. In fin dei conti, il mondo è stato affidato all’uomo all’alba della Creazione, affinché egli lo coltivasse e intrecciasse la sua opera con quella del Creatore (cfr. Gn. 2,15; 1,28).
Non è ciò che si voleva dire. Si voleva solo sottolineare che ogni condizione della storia umana ha in sé le proprie particolari possibilità come anche i suoi particolari pericoli e che i pericoli di oggi sono diversi da quelli di ieri. Del resto anche la forza religiosa, che è insita nella natura, non era del tutto scevra da pericoli. Infatti nella storia umana, contrassegnata dal peccato originale, sovente essa non portò in alcun modo alla diretta conoscenza del Creatore, ma fece un idolo della natura stessa, opera di Lui. Così, in luogo dell’unico vero Dio, sorsero i numerosi falsi dei; l’adorazione dell’opera invece che del suo Autore (Rom. 1,21-26). Oggi l’uomo incontra la natura per lo più attraverso il filtro della propria opera, quindi attraverso l’orma della propria intelligenza e della propria volontà. Perciò in luogo della religione della natura subentra necessariamente la religione tecnica, cioè l’adorazione dell’uomo verso sé stesso: l’auto-divinizzazione dell’umanità abolisce di conseguenza la divinizzazione della natura.
Ciò significa che il nuovo paganesimo, sviluppatosi da un secolo nel cuore del mondo cristiano, è fondamentalmente diverso da quello primitivo; non ci sono più dei, ma il mondo è irrevocabilmente spogliato del suo carattere divino, è diventato profano. Soltanto l’uomo è rimasto in campo, e indubbiamente prova ora una specie di religiosa venerazione verso sé stesso, e in ogni caso verso quella parte dell’umanità cui è debitore del progresso tecnico. È chiaro che in tale modo la condizione della religione nell’umanità si è fondamentalmente trasformata, e che al giorno d’oggi uno dei suoi compiti più urgenti sarà quello di riconfermare il suo permanente diritto sull’uomo in un mondo profondamente cambiato e farlo comprendere in una forma nuova. Come potrà avvenire ciò? Per avere una risposta, dobbiamo fare una nuova riflessione.
3. La fede nella scienza
Una delle conseguenze più straordinarie, prodottesi dopo il successo della tecnica, è ciò che si potrebbe chiamare la fede delle masse nella scienza. L’uomo, che ha ripetutamente provato come sia sempre divenuto possibile ciò che appena un decennio prima sembrava assolutamente impossibile, è giunto ormai al punto da non ritenere più nulla per impossibile. Egli si aspetta tutto dalla scienza, anche la soluzione delle sue più profonde esigenze di uomo, per le quali finora aveva fatto ricorso alla religione. La promessa di Comte [Auguste, 1798-1857], secondo cui la fisica sociale — cioè la trattazione scientifica del fenomeno umano — sarebbe divenuta positiva come tutte le altre scienze esatte, continua a operare nel profondo, ed essa, coscientemente o no, è il movente culturale nascosto di esperimenti come il Rapporto Kinsey (1), i quali cercano di far derivare da dati statistici medi le norme del comportamento umano, nelle quali, al posto dell’esigenza morale, si trova la pura e semplice informazione scientifica. Colui che ricorre allo psichiatra forse troppo spesso si aspetta dalle nozioni di psicologia di essere liberato dalla necessità dell’azione e della rinuncia morale, e ciò per mezzo di una spiegazione scientifica, che tende a mantenere in efficienza la compagine alterata delle funzioni della sua psiche, sopprimendo gratuitamente i concetti di colpa e di peccato.
Ma proprio qui dovrebbe trovarsi la possibilità di spiegare nuovamente il senso della fede all’uomo nell’era della tecnica e della scienza.
L’uomo rimane sempre «questo sconosciuto», come disse Alexis Carrel [1873-1944], «il grande abisso», secondo sant’Agostino [354-430]: di lui si possono senza dubbio dare molte spiegazioni secondo gli odierni metodi scientifici, ma la parte più profonda di lui, quella che costituisce l’elemento determinante della sua natura, resta incompresa e incomprensibile a ogni forma di sociologia, psicologia, pedagogia o altro che dir si voglia.
L’amore è il pur sempre meraviglioso prodigio che si sottrae a ogni indagine e la colpa continua a essere l’oscura possibilità, che nessuna statistica elude, e che si cela al fondo del cuore umano e rimane quella nota di solitudine e di tensione che si appella all’Infinito, ne cerca il volto e il nome, perché solo l’Infinito può accontentare una creatura la cui dimensione non è data che dall’infinito.
Sarà impossibile rendere l’uomo della tecnica consapevole di questa realtà? Se egli ormai non ha più la natura che gli parla di Dio, ha però ancora sempre sé stesso e ha un cuore che grida verso Dio, sebbene spesso egli non comprenda più questo linguaggio delle sue solitudini e abbia bisogno di un interprete che gliene sveli il senso. Certo, in un’epoca soggetta alla tecnica la religione dovrà rivestire in parecchi casi un aspetto diverso, diventerà più sobria nella sostanza e nella forma, ma forse anche più profonda.
L’uomo di questo tempo può pretendere a buon diritto che la Chiesa lo aiuti in questo processo di semplificazione e che essa abbandoni alcune forme invecchiate che non gli si confanno più: può esigere che in quei casi, nei quali una condizione spirituale poco evoluta ha ammesso, anzi ha richiesto, una certa mescolanza tra la fede e le forme umane, essa liberi senza esitazione l’elemento proprio della fede dal suo involucro condizionato dal tempo, e, lasciando in tale modo quanto è caduco, tanto più chiaramente si rivolga a quanto è duraturo.
L’uomo di oggi deve nuovamente poter riconoscere che la Chiesa non teme né ha nulla da temere da parte della scienza, perché essa è innestata nella verità di Dio, alla quale non può essere opposta nessuna genuina verità e nessun genuino progresso. Forse, nella libertà spassionata che nasce nella Chiesa da una tale consapevolezza, l’uomo di oggi può più facilmente intravedere una indicazione e provocare un’adesione a quella Fede che il mondo non può vincere, ma che dal canto suo porta in sé la forza di vincere il mondo (1 Gv. 5,4).
4. Le ideologie
Quando si parla della condizione spirituale del giorno d’oggi, si pensa anzitutto alle grandi correnti culturali del nostro tempo: marxismo, esistenzialismo, neoliberalismo; e può darsi il caso che di questi movimenti non si sia detta finora che la minima parte. Tuttavia si rende necessaria una considerazione: questi movimenti, ai quali sarebbe ancora da aggiungere il mito nazionalista nelle sue diverse forme, non sono da parte loro che il concretizzarsi di una situazione spirituale di fondo, dalla quale si deve trovare una via di uscita se si vogliono comprendere nella loro reale profondità i compiti del tempo presente.
Il fenomeno dell’ideologia, che dà la propria impronta a questi movimenti nelle diverse forme a essi relative, si deve considerare sullo sfondo di un mondo divenuto definitivamente senza Dio, profano, nel quale l’ideologia prende il posto della fede. Essa offre all’uomo un’interpretazione globale del mondo e un senso completo della vita, senza esigere da lui una fede in realtà trascendenti e divine. Essa è dunque, secondo la propria natura, il fedele prodotto di un mon do per il quale gli dei sono divenuti inconcepibili, ma che rifugge altresì dal rischio della fede in un solo Dio, e si fa una religione senza religione, poiché proprio questa è l’essenza dell’ideologia: promettere di adempiere all’ufficio della religione, cioè dare un senso alla vita senza essere per questo una religione. Perciò l’espressione oggi spesso usata di «surrogato della religione» è giusta, ma non del tutto precisa: l’ideologia è qualcosa di nuovo, che si produce soltanto dal totale ripiegamento dell’uomo su sé stesso in un’epoca dominata dalle scienze naturali e dalla tecnica, e nella quale egli non trova più alcun adito alla religione, pur sentendo sempre il bisogno di ciò che la religione gli offriva: un ancoraggio spirituale e un significato senza cui non potrebbe vivere.
In quanto a ideologie oggi dominanti, si possono a ragione citare il marxismo e il neoliberalismo. Sebbene oggi, in molti Paesi dell’Occidente, cattolici dichiarati abbiano nelle mani il governo — come in Italia, nella Spagna, in Francia, in Belgio, in Germania, e anche negli Stati Uniti d’America (2) —, e la Chiesa vi goda non soltanto della libertà, ma anche di un influsso non irrilevante nella vita pubblica, si è tuttavia tentati di giudicare il neoliberalismo come l’unico punto fermo, che dà omogeneità a quella immagine spirituale così eterogenea, e tuttavia per noi così valida, che con termine un po’ vago è chiamata «l’Occidente». Fra le due citate ideologie vi sono difatti forme miste, fra le quali è da ricordare il cosiddetto socialismo democratico, che accanto a elementi marxisti ha assorbito una buona dose di liberalismo; e, sebbene a lunga distanza, si può citare anche l’esistenzialismo che, trasformatosi da una filosofia in una ideologia, in sostanza è liberale, ma, data la sua tendenza nichilistica, si sente talora fortemente attratto dal marxismo. Il mito del nazionalismo, dopo il crollo del fascismo, è stato largamente sconfessato in Europa, e il suo nuovo esplodere nei popoli di origine coloniale è ancora troppo confuso per poterne dare un chiaro giudizio.
Facendo un tale bilancio, bisogna rilevare ancora che nell’ambito proprio delle diverse ideologie, cioè in Europa, in America e in Russia, avviene altresì da parte delle masse un progressivo allontanamento dall’ideologia. Cioè: il liberalismo e il socialismo avrebbero in gran parte perso il carattere della loro concezione del mondo, in entrambi i movimenti si sarebbe smorzato lo slancio del primo battagliero avvio e sarebbero rimasti un’ideologia in formato ridotto, a carattere più pragmatico, che rinunzia a creare quaggiù il paradiso terrestre — cosa che di fatto essi originariamente promettevano —, che si accontenta del raggiunto standard di vita e che si adagia, per così dire, sulla poltrona delle proprie comodità. Senza dubbio vi è molto di esatto in questa osservazione, ma non si deve esagerare. Il benessere può far temporaneamente dimenticare, con la comodità raggiunta, l’aspirazione dell’uomo verso il senso della vita, ma non la può estinguere. In tal modo un’ideologia, divenuta momentaneamente superflua, può senza dubbio riapparire più forte che mai ogni qualvolta una nuova situazione viene a scuotere l’uomo dal letargo della sua prosperità.
Non è qui il momento di descrivere e di confutare le ideologie sopra nominate. Ma in tale ordine di idee vogliamo chiederci quali compiti esse impongano positivamente alla Chiesa del nostro tempo. E, detto assai semplicemente, anzitutto questo: porre la fede di fronte alle ideologie come la vera risposta all’aspirazione che l’uomo sente verso un qualcosa che vale. Ma vi è forse da dire di più.
Anche se l’uomo sbaglia, lo fa sempre perché un bene lo attira; un bene che egli preferisce erroneamente a beni più alti, ma che rimane tuttavia sempre un bene. Così può darsi che, anche negli errori dei diversi tempi, rimangano visibili le tracce di certi valori che interessano e attirano gli uomini. Sarà perciò compito della Chiesa mettere nuovamente in luce, al giusto posto, questi valori, che l’uomo credeva di non poter più trovare in essa.
Il marxismo è un’ideologia della speranza, in cui l’attesa messianica d’Israele e la fede confidente dei cristiani è convertita in una promessa profana, terrena, che lascia però tuttora intravedere gli antichi lineamenti del Regno di Dio, trasformato dal marxismo in regno dell’uomo.
L’esistenzialismo gli ha contrapposto una filosofia della disperazione, per cui l’uomo, dopo aver riconosciuto che ogni cosa è senza significato, vuole vivere però «nonostante tutto» con l’animo ribelle di chi è deciso a fare cose senza senso. Anche questo stravolto modo di pensare e di agire del mondo esistenzialista conferma ed esprime, in sottofondo inconscio e malinconico, la brama dell’uomo verso una grande, paziente speranza che colmi finalmente tutte le attese e tutte le promesse, non soltanto per sé stesso ma per l’umanità, per la terra, per il mondo intero. Forse il cristianesimo del secolo passato si era di fatto limitato un po’ troppo alla salvezza spirituale del singolo, promessagli nell’aldilà, e non aveva invece parlato abbastanza decisamente della salvezza del mondo, dell’universale speranza contenuta nel messaggio di Cristo. Sicché ora gli spetterebbe il compito di rielaborare questi pensieri; e al tempo stesso, davanti al fervido interessamento per le cose del mondo, così evidente nell’uomo moderno, contrapporre una nuova interpretazione positiva del mondo inteso come creazione, che rivela e dimostra gli splendori di Dio, unitariamente redenta e salvata da Cristo, il quale non è solo il capo di una Chiesa, ma anche il Signore della creazione (cfr. Ef. 1,22; Col. 2,10; Fil. 2,9 e ssg.). Considerazioni analoghe si possono sviluppare dall’esame del liberalismo. L’idea della tolleranza, il rispetto della libertà spirituale degli altri uomini, l’incondizionata ricerca di schiettezza avversa a ogni meccanicità: ecco alcuni valori genuini, che l’uomo crede di poter trovare in questo sistema, e che giustamente lo attirano. Dovremmo noi rimettere tutto ciò semplicemente agli altri, perché lo attuino, o non piuttosto ricordare che tutti i valori sarebbero inconcepibili senza il cristianesimo, e che pertanto non si dovrebbero trovare in nessun posto meglio che da noi? L’uomo di oggi, che ha dietro di sé la disastrosa esperienza del totalitarismo e ha sempre occasione di imparare meglio a giudicare la natura, è divenuto straordinariamente sensibile e acuto di fronte a ogni sintomo di precedenti totalitari; e proprio per questo è portato a rifugiarsi nell’ideologia liberale. Egli subodora perciò fin troppo rapidamente l’esistenza di un sistema totalitario sotto tradizionali forme ecclesiastiche, come per esempio l’Indice dei Libri Proibiti, e pensa che nel cattolicesimo non vi sia posto per una vera e propria dialettica ma soltanto per opinioni guidate dall’alto, che potrebbero essere sostenute anche da chi sta in disparte, senza nessuna personale responsabilità.
Pertanto egli teme che anche il Concilio non sia un vero e proprio concilium, un cercare realmente «insieme» la verità. Noi sappiamo che le cose non stanno così. Ma mentre esaminiamo l’intera praxis che ci riguarda, non dovremmo di fatto far maggiore attenzione che non in passato a togliere ai contemporanei pretesti di questo genere, con cui giustificano il loro allontanamento dalla Chiesa? Il prossimo Concilio è stato indetto dal Santo Padre anzitutto come un Concilio di riforma di carattere pratico e qui, nell’esame delle forme antiche, esso troverà certamente una serie di provvedimenti che, visti dall’esterno, potranno perfino sembrare minuziosi, ma che, se applicati, potranno contribuire più di tante parole a riaprire all’uomo di oggi la casa della Chiesa, la sua casa paterna, nella cui gioiosa intimità egli potrà vivere a suo agio.
C. Pensieri conclusivi
Dobbiamo giungere a una conclusione, quantunque solo adesso siamo arrivati al punto centrale della trattazione. Abbiamo parlato finora unicamente della condizione spirituale dell’umanità al di fuori della Chiesa, che certo si estende in vari modi fin dentro la Chiesa stessa, senza per questo confondersi con essa. Vogliamo dire che nella Chiesa la moderna situazione riveste un carattere particolare, che non è condizionato unicamente in senso negativo dall’irrompere dell’incredulità, ma si determina altresì in senso positivo dall’incremento della fede. La Chiesa vive tuttora sotto il soffio dello Spirito Santo, e proprio nell’ultimo mezzo secolo ha vissuto un periodo di particolare fecondità, che ha creato in essa una situazione di ricchezza spirituale di cui non si poteva avere il presentimento al tempo del primo Concilio Vaticano.
Pertanto, proprio da questa situazione, che è sbocciata dalla positiva pienezza di una vita sempre feconda, si attende sempre di più una chiarificazione.
Se sotto il nome di carisma si intende quell’azione dello Spirito Divino che, al di sopra della normale regolarità burocratica, crea in modo imprevisto nuova vita in seno alla Chiesa, si può dire allora che il nostro secolo è contrassegnato da due grandi movimenti carismatici, i quali senza dubbio — ed è la cosa più sorprendente — sembrano stare in una certa opposizione l’uno con l’altro, e di fatto furono e sono largamente sentiti come contrastanti.
Da una parte, ecco il movimento mariano, che specialmente da Lourdes e da Fatima ha ricevuto i suoi grandi impulsi carismatici, e successivamente fu accolto dalla stessa autorità ecclesiastica, in modo speciale sotto Pio XII [venerabile, 1939-1958], e reso comune possesso di tutta la Chiesa. Dall’altra gli sta di fronte il movimento liturgico, che ha preso l’avvio dalle grandi abbazie benedettine di Francia, Belgio e Germania — Solesmes, Maredsous, Beuron e Maria Laach — e oggi, come ha dimostrato il Congresso Eucaristico Internazionale di Monaco [di Baviera] del 1960, è diventato anch’esso proprietà comune di tutta la Chiesa. Infatti, il magistero ecclesiastico si è chiaramente affiancato anche a questo movimento per mezzo di encicliche, riforme liturgiche e parecchie altre disposizioni. Dal canto suo il movimento liturgico ha dato il via a un più vasto cerchio di ulteriori movimenti: nella sua scia si è arrivati a una riscoperta della Chiesa, diffusa da una letteratura ecclesiologica di ricchezza inaudita e di proporzioni sempre crescenti, confortata da un accresciuto studio della Sacra Scrittura e dei Santi Padri, che a sua volta ha portato a nuove possibilità di dialogo con le comunità dei cristiani separati, i quali ora, nel Segretariato «Ad unitatem christianorum fovendam», si è profondamente ancorato nel magistero della Chiesa.
Se ora, semplificando un po’, comprendiamo tutti questi nuovi impulsi sotto il nome di «movimento liturgico», dobbiamo riconoscere che siamo testimoni di due grandi correnti sgorgate spontaneamente dal cuore della Chiesa, le quali nel frattempo hanno ottenuto il sì decisivo della Chiesa docente. Essi stanno però uno di fronte all’altro in atteggiamento singolarmente freddo.
La pietà liturgica, per dirla con una sintesi un po’ imprecisa, ha un carattere oggettivo-sacramentale, quella mariana soggettivo-personale; la pietà liturgica è soggetta alla norma «per Christum ad Patrem», quella mariana al motto «per Mariam ad Jesum». Potremmo addurre ancora parecchie differenze, fino a quella, spesso sottolineata, d’indole geografica. Infatti il movimento mariano è più radicato in Italia e nei Paesi di lingua spagnola e portoghese, mentre quello liturgico-ecclesiologico più in Germania e in Francia. Non si può certo calcare la mano su questa delimitazione di confini, perché oggi entrambi i movimenti sono dappertutto nella Chiesa e differiscono solo per una diversa accentuazione. Ciò dimostra ancora una volta che la molteplicità dei popoli è una ricchezza per la Chiesa, perché ognuno di essi reca il proprio carisma nell’unità del Corpo di Cristo; e oggi non possiamo neppure presagire quale ricchezza nuova arriverà alla Chiesa, quando le si schiuderanno i carismi dell’Asia e dell’Africa.
Ma restiamo all’argomento del rapporto fra le due correnti spirituali, oggi operanti in seno alla Chiesa. Sembra che non siamo tanto lontani dal vedere la loro intima unione, riconoscendo la direzione in cui sarà richiesto l’ulteriore approfondimento. Infatti si acquisisce sempre più chiaramente che Maria Santissima non è isolata di per sé, ma soprattutto è simbolo primordiale e immagine della Mater Ecclesia.
Essa è la conferma vivente che la pietà cristiana non sta solo dinanzi a Dio e che nel cristianesimo non si tratta mai unicamente di rapporti privati fra il «Cristo e me stesso», ma vi s’inserisce sempre il segreto mariano: e perciò l’Io è sempre immerso nell’universale comunità dei santi, al cui centro è Maria, la Madre del Signore.
Essa è la dimostrazione che Cristo non ha voluto rimanere solo, ma che l’umanità redenta dei credenti è diventata con Lui un corpo solo, un unico Cristo, «l’intero Cristo, il Capo e le membra», come ha detto sant’Agostino (3) in modo insuperabilmente stupendo. Così Maria rimanda alla Chiesa, alla comunità dei santi, che si riunisce pregando nella liturgia.
Il compito del prossimo decennio, partendo da queste considerazioni, potrebbe dunque essere quello di accogliere il movimento mariano in quello liturgico e ordinarlo nei grandi motivi teologici di quest’ultimo. A chi si occupa di liturgia esso dovrebbe comunicare qualcosa del suo calore, della sua personale interiorità e commozione, della sua profonda disposizione al pentimento e all’espiazione; e viceversa esso potrebbe ricevere dalla liturgia qualcosa della sacrale sobrietà e chiarezza, della luminosità e dell’austera serietà delle antiche, solenni leggi della preghiera e del pensiero cristiano, che tiene nei limiti la fantasia troppo alata e gli slanci del cuore amante, indicando loro la giusta direzione.
A conclusione, vi è ancora una cosa che non deve essere omessa: in questo nostro tempo è stata chiesta alla Chiesa anche la più grande testimonianza, quella del dolore. Non si deve dimenticare che l’ultimo mezzo secolo ha prodotto da solo più martiri che non tutti i tre secoli delle persecuzioni romane. Dovremmo dunque ritenerci ancora abbandonati da Dio in un secolo che è capace di una tale testimonianza? Dovremmo ancora lamentare la povertà di fede e la stanchezza della Chiesa? Per il fatto che la Chiesa è sempre, e più che mai, la Chiesa dei martiri, non si ha forse la prova più alta che la forza dello Spirito Santo opera tuttora integra in essa?
La testimonianza del dolore è la testimonianza della nostra vita invincibile. Servire questa vita sarà il compito del futuro Concilio, che, come un Concilio di rinnovamento, avrà non tanto il compito di formulare dottrine, quanto quello di rendere nuovamente e più profondamente possibile nel mondo di oggi la testimonianza della vita cristiana, affinché si dimostri veramente che Cristo non è solo un «Cristo di ieri», ma l’unico Cristo, «ieri, oggi e nei secoli» (Eb. 13,8).
Note:
(*) Discorso del card. Joseph Frings (1887-1978), arcivescovo di Colonia, tenuto a Genova il 20-11-1961, per il Ciclo di Conferenze organizzate dalla Fondazione Columbianum sull’imminente Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965). Testo ripreso da Il Concilio Ecumenico Vaticano II di fronte al pensiero moderno, Edizioni Colombianum, Genova 1962, con lievi interventi di aggiornamento redazionali; edizione tedesca: Das Konzil und die moderne Gedankenwelt, Bachem, Colonia 1962. Le inserzioni fra parentesi quadre e le note sono redazionali.
(1) I rapporti Kinsey sono due discutibili saggi sul comportamento sessuale dell’essere umano (Il comportamento sessuale dell’uomo, trad. it., Bompiani, Milano 1969, e Il comportamento sessuale della donna, trad. it., Bompiani, Milano 1970), scritti dal biologo statunitense Alfred Charles Kinsey (1894-1956) in collaborazione con altri studiosi.
(2) Il riferimento è alla presidenza del cattolico John Fitzgerald Kennedy (1917-1963).
(3) Cfr. «[…] totus Christus, caput et membra» (Sant’Agostino, Discorso sul natale dei santi apostoli Pietro e Paolo, in Discorsi, Discorso 299/C, 2, consultabile nel sito web <http://www.augustinus.it/italiano/discorsi/discorso_421_testo.htm>, consultato il 22-2-2017).