Oltre l’illusione della “vita comune”
PER UN ANTICOMUNISMO MILITANTE
Mai, come nei periodi di rapido mutamento, si fa esperienza di quanto siano radicate abitudini e di quanto siano diffusi giudizi personalmente non verificati – i cosiddetti pregiudizi, che in questa sede assumiamo con coloritura neutra -, che vanno a costituire quel tessuto compatto che si è soliti indicare con il termine di «mentalità».
Per chi, come noi, grida «al fuoco» per l’avvenuto ingresso dei comunisti nell’area di governo e lamenta l’inescusabile silenzio dell’autorità ecclesiastica, è quotidiano verificare come la rinuncia alla reazione riposi, spesso se non sempre, su di una considerazione il cui valore è venuto radicalmente meno – a dire poco – a partire dalle guerre di religione!
Tale considerazione si esprime, grosso modo, nei termini seguenti: «Quello che chiamate Rivoluzione, e che temete e denunciate instancabilmente, è un puro e semplice passaggio di potere da un “sovrano” a un altro “sovrano”. Cosa può e deve interessare a un povero “provinciale” che cosa succede a Roma e chi vi comanda? Cosa può e deve interessare a un “suddito” qualsiasi, se il re è un Borbone o un Asburgo?».
A parte il fatto che questo tipo di affermazione è tale da fare seriamente meditare sui risultati reali conseguiti da decenni – se non secoli – di «educazione permanente del cittadino» alla «dignità della persona umana», tale considerazione, nella sua immediatezza, manifesta sostanziale disperazione a proposito della possibilità del singolo di incidere sulla realtà politica; penosa disinformazione sul comunismo e sulla vita in regime comunista, nonché, evidentemente, speranza in una sorta di «limbo», o «vita comune», in cui sarebbe possibile rifugiarsi finché l’esercizio del potere abbia «corrotto» – cioè «umanizzato» – il suo detentore, e «Roma» conquistata abbia imprigionato il rivoluzionario «puro» e «dogmatico».
Esiste, dunque, un mito della «vita comune», su cui si fonda il disimpegno culturale, civico e sociale dei più, che pure sono anticomunisti e che apprendono con gioia la nuova di ogni sconfitta o difficoltà del comunismo.
Perché la speranza in una «vita comune», in una «esistenza qualunque» – pubblicamente sorda e grigia, ma privatamente colma delle piccole gioie della vita di tutti i giorni -, fosse in qualche modo fondata e seria, dovremmo vivere in un tempo, come dicevamo, almeno anteriore alle guerre di religione, quando i guasti della guerra – per chi avesse avuto il buon senso o la ventura di starne fuori, di tenersene ai margini – erano quasi completamente limitati ai guasti stessi, e la pace non era più terribile del conflitto!
Quanto è lontano il nostro tempo da quel tempo, e il nostro mondo da quel mondo! Oggi, infatti, la vittoria è forse più terribile del conflitto. Il vincitore non si accontenta più di vincere e del potere che si è assicurato con la vittoria, ma intende anche e soprattutto convincere, e chi non è convinto, non si dichiara tale e non prova di esserlo, è valutato alla stregua di un nemico in armi o di un malato di mente, e quindi affidato a cliniche che non sono gestite secondo i criteri di «psichiatria democratica», ma nelle quali gli psicofarmaci corrono ancora, e abbondantemente!
Non basta non avere preso partito durante il conflitto, ma si è sollecitati a prenderlo certamente dopo la vittoria, che è soltanto il segno che il conflitto stesso ha cambiato, non natura, ma, eventualmente, modalità. Non ci si può sottrarre alla «liberazione», alla «salvezza»: da quando la salvezza non è più eterna, ma terrena, non c’è più il giudizio finale, ma il «paradiso in terra», sempre imminente, è preceduto da un continuo giudizio particolare, e la invasione della società da parte della politica – che ha assunto il ruolo della religione e che si è fatta terribilmente aggressiva, sì che il richiamo storico più macroscopico e prossimo è l’Islam – annulla ogni possibilità di rifugio nella propria società e quindi nella propria nazione. L’«esilio interno» è irrealistico come quello «esterno». La libertà interiore dello stoico si rivela, infatti, colpevole accettazione della sconfitta, quando questa sconfitta non sia l’esito sfavorevole di una battaglia, ma il risultato prevedibile e ineluttabile di chi ha rifiutato di combattere.
E non basta neppure scegliere il vincitore – «tenere, molto prosaicamente, da chi vince» – perché nessun cavallo è mai definitivamente e sicuramente vincente in una corsa che non ha fine! Che senso ha schierarsi con il principe luterano – «cuius regio, eius religio» -, se può, a momenti, divenire calvinista, o improvvisamente farsi anabattista? Come sopravvivere «comunemente» all’interno di un terremoto sociale che fa della «moglie del capo» una esponente esecrata della «banda dei quattro»? In queste condizioni, perché non praticare un anticomunismo franco e attivo, dal momento che è impossibile sottrarsi alla «identificazione politica» attraverso i più insignificanti fatti sociali, come la partecipazione o meno alla «festa del quartiere», l’autoriduzione delle tariffe telefoniche o dell’energia elettrica, lo «sciopero» nel pagamento dell’affitto, ecc.?
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Le immagini evocate della «rivoluzione culturale» offrono all’impenitente teorico e pratico del «disimpegno» l’occasione per farsi forte di un evasivo: «Ma qui non siamo in Cina!».
Certo, qui non siamo in Cina, ma, questo sì che conta, c’è o non c’è la rivoluzione culturale? In quali condizioni può trovarsi una società lavorata da forze il cui teorico ha sentenziato che «tutto è politico»? (1). Nella prospettiva del «tutto è politico», dov’è lo spazio per la «vita comune» e per una pure lecita privacy, se non nella lotta culturale, civica e sociale per riconquistarle? Come ritenere risposta adeguata al «tutto è politico» il rifugiarsi in una delega, sia pure bene riposta, sempre che se ne trovi un destinatario conveniente? Come ci si può ritenere paghi di avere eventualmente votato bene, quando chi ha fruito del nostro suffragio è – nella migliore delle ipotesi, cioè quando non ci ha ingannato – impotente a frenare il dilagare della politica nella società e nella vita di tutti i giorni?
I termini possono sembrare eccessivi, o almeno drammatici: li sono certamente, se non ci si sforza di collegare i fatti; se tutto ciò che accade è visto e giudicato come eccezione rispetto a una normalità che ci piacerebbe esistesse, ma che esiste sempre meno, è sempre meno reale, ha un margine sempre più ridotto. Come interpretare, per esempio, le affermazioni delle vittime del terrorismo, dei loro familiari, quando, quasi per dichiararsi innocenti, cioè ingiustamente colpiti – come se il terrorista fosse mosso da giustizia! -, giurano sul proprio disimpegno politico, sulla propria estraneità al conflitto sociale? Non ci si trova di fronte alla prova concreta che il disimpegno non paga, oltre a essere sempre meno vivibile?
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L’impegno urge. E non quello che gradiremmo, ma quello a cui ci chiama la pressione rivoluzionaria così come storicamente si manifesta. Un impegno personale, diretto, non delegato. Si può delegare molto, non tutto e, certamente, non l’essenziale. Non basta sostenere chi si impegna, sempre che lo si faccia veramente, ma bisogna impegnarsi in campo culturale, civico e sociale.
A ogni ingiustizia si deve rispondere con una reazione organizzata, perché non abbia a ripetersi; con un riflesso di solidarietà tangibile, che si istituzionalizzi in comitati di difesa contro le ingiustizie.
Nessuna ingiustizia va sopportata in silenzio – né per carità di patria, né tanto meno per carità di partito -, ma gridata, e denunciata, e trasformata in una bandiera: il silenzio non risparmia altre ingiustizie, prepara soltanto ad assuefarsi a esse nella solitudine e nell’isolamento.
All’avvelenamento psicologico e culturale in cui immerge la educazione permanente dei mezzi di comunicazione sociale, dei mass-media, si deve rispondere non tollerando l’errore – neppure per carità di Chiesa -, ma facendo circolare la buona stampa, spegnendo la televisione e parlando, ravvivando il dialogo domestico e fra nuclei familiari, costruendo micro-comunità dottrinalmente e praticamente solidali.
E tutto questo costa tempo e fatica. Tempo e fatica sottratti al lavoro e allo svago. Proprio in un momento in cui si sente una profonda necessità di distensione e si ha un grande bisogno di lavoro. È il sacrificio indispensabile perché tutto non divenga lavoro e lo svago non sia usurpato da permanenti assemblee in cui, di volta in volta, qualcuno viene denunciato e scelto come capro espiatorio degli inevitabili fallimenti di un regime contro-natura.
Ma tutto questo sta dalla parte di quell’«aiutati», naturale, cui segue, ristoratrice e restauratrice, la promessa dell’aiuto di Dio.
Note:
(1) ANTONIO GRAMSCI, Il materialismo storico, Einaudi, Torino 1949, p. 32.