Plinio Corrêa de Oliveira, Cristianità n. 34-35 (1978)
Le «ragioni» di tre principi fondamentali della civiltà cristiana, esposte in modo semplice, sostanziale e con la consueta chiarezza, precisione e immediatezza dal professor Plinio Corrêa de Oliveira, presidente del consiglio nazionale della Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Família e Propriedade (TFP). I luoghi comuni della «mistica» ugualitaria. I rapporti tra libertà, lavoro e proprietà.
Primi elementi di dottrina contro-rivoluzionaria
TRADIZIONE, FAMIGLIA E PROPRIETÀ
L’UGUAGLIANZA TOTALE NEL PUNTO DI PARTENZA È UNA INGIUSTIZIA
Come si sente ripetere in ogni momento, giustizia vorrebbe che, nel punto di partenza della vita, tutti avessero le stesse possibilità. Così, l’educazione dovrebbe essere uguale per tutti, e uguali le carriere nelle diverse professioni. Chi avesse maggiore valore, emergerebbe fatalmente. Il merito troverebbe il suo stimolo e la sua ricompensa. E la giustizia – finalmente! – regnerebbe sulla faccia della terra.
Questo modo di vedere assume, talora, una formulazione con sfumature «cristiane» (e qual è la sciocchezza che oggi non cerca un travestimento «cristiano»?). Dio – si argomenta – premierà alla fine della vita gli uomini secondo i loro meriti, senza prendere in considerazione la culla in cui ciascuno è nato. Nella prospettiva della giustizia divina, e in ragione della eternità, vi sarebbe, dunque, una negazione del valore dei punti di partenza. È lodevole, è degno, è cristiano, in questo caso, che gli uomini cerchino di organizzare l’esistenza terrena secondo le norme della giustizia celeste. E che perciò i vantaggi della vita terrena siano ugualmente alla portata di tutti, e finiscano per essere conquistati dai più capaci.
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Prima di analizzare questo principio in sé stesso, è bene che prendiamo nota di alcune sue applicazioni, di cui si può sentire parlare qua e là.
Vi sono uomini d’affari che considerano l’ereditarietà dell’impresa un principio antipatico. I loro figli non saranno i padroni dell’impresa per diritto di eredità. Saranno funzionari come gli altri, partiranno da quota zero, cioè dagli incarichi più modesti, e arriveranno alla direzione della ditta soltanto se saranno i più capaci.
Vi sono famiglie potenti e di buona educazione, che considerano un imperativo di giustizia l’istituzione di un solo tipo di scuola primaria e secondaria, con la conseguente chiusura o riforma di tutti gli istituti di insegnamento di diverso livello oggi esistenti.
Non sono così rari coloro che, avendo accumulato nel corso della esistenza buone economie, sentono in coscienza un certo malessere all’idea di trasmetterle ai figli: questi non beneficeranno, ipso facto, di un privilegio antipatico e ingiusto, acquisendo beni che non sono venuti loro né dal lavoro, né dal merito personale?
Così, la dottrina della uguaglianza coatta dei punti di partenza si dispiega in conseguenze che possono abbattere il regime della proprietà privata.
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Prima di passare oltre, bisogna notare le pittoresche contraddizioni in cui cadono abitualmente i sostenitori di queste tesi. Glorificatori del merito come unico criterio di giustizia, sono favorevoli, in generale, alle scuole di pedagogia moderna, contrarie a premi e a castighi, con il pretesto che tanto le punizioni quanto le ricompense creano complessi. E, in questo modo, l’idea del merito – e il suo inevitabile corollario, che è l’idea della colpa – sono eliminate dalla educazione dei futuri cittadini di una civiltà basata soltanto sul merito.
D’altro lato, gli stessi glorificatori del merito si dimostrano, il più delle volte, favorevoli a cimiteri in cui tutte le tombe siano uguali. A questo modo, nel punto terminale di una esistenza terrena organizzata secondo il criterio unico del merito individuale, e sul limitare di una vita eterna felice o infelice a seconda del merito o della colpa, qualsiasi riconoscimento speciale del merito rimane escluso. Sepolcri uguali per il saggio insigne e l’uomo comune, per il reggitore di popoli e per chi si è curato soltanto della propria vita, per la vittima innocente e per l’infame assassino, per il promotore di scismi e di eresie e per l’eroe che è vissuto ed è morto difendendo la fede.
Come spiegare che si possa, nello stesso tempo, glorificare tanto il merito, e negarlo in modo così integrale?
Tuttavia, la contraddizione più sorprendente di questi adepti della uguaglianza di tutti i punti di partenza, si mostra quando, nello stesso tempo, si dichiarano entusiasti dell’istituto della famiglia. Questa, infatti, è per mille versi la negazione evidente della uguaglianza dei punti di partenza. Vediamo perché.
Vi è un fatto naturale, misterioso e sacro, legato intimamente alla famiglia. È l’ereditarietà biologica. È evidente che alcune famiglie sono meglio dotate da questo punto di vista, di altre, e che questo dipende molto da fattori estranei al trattamento medico o all’allevamento igienicamente perfetto. La ereditarietà biologica ha importanti riflessi sull’ordine psicologico. Vi sono famiglie in cui si trasmette, attraverso molte generazioni, o il senso artistico, o il dono della parola, o l’intuito medico, o la capacità per gli affari, e così via. La natura stessa – e dunque Dio, che è autore della natura, – distrugge, attraverso la famiglia, il principio della uguaglianza del punto di partenza.
Bisogna aggiungere che la famiglia non trasmette semplicemente doti biologiche e psicologiche. Essa è una istituzione educativa, e, nell’ordine naturale delle cose, la prima delle istituzioni pedagogiche e formative, Così, chi sarà stato educato da genitori altamente dotati dal punto di vista del talento, della cultura, dei modi o – il che è fondamentale – della moralità, avrà sempre un punto di partenza migliore. E l’unico mezzo per evitare questa situazione consiste nel sopprimere la famiglia, educando in scuole ugualitarie e statali, come in regime comunista. Vi è così una disuguaglianza ereditaria più importante di quella patrimoniale, e che deriva direttamente e necessariamente dalla esistenza stessa della famiglia.
E l’eredità del patrimonio? Se un genitore ha veramente viscere di padre, amerà per forza, più degli altri, suo figlio, carne della sua carne e sangue del suo sangue. Così, egli si comporterà secondo la legge cristiana se non risparmierà sforzi, sacrifici e veglie, per accumulare un patrimonio che ponga suo figlio al riparo da tante disgrazie che la vita può portare con sé. In questa ansia, il genitore avrà prodotto molto di più di quanto avrebbe prodotto se non avesse avuto figli. Alla fine di una vita di lavoro quest’uomo spira felice per il fatto di lasciare il figlio in condizioni favorevoli. Immaginiamo che, nel momento in cui sta per spirare, venga lo Stato e, in nome della legge, confischi l’eredità, per imporre il principio della uguaglianza dei punti di partenza. Questa imposizione non è una frode ai danni del morto? Non calpesta uno dei valori più sacri della famiglia, un valore senza il quale la famiglia non è famiglia, la vita non è vita, cioè l’amore paterno? Sì, l’amore paterno, che dispensa protezione e assistenza al figlio – anche al di là della idea di merito, semplicemente, in modo sublime, per il semplice fatto che è figlio.
E quell’autentico crimine contro l’amore paterno, che è la soppressione della eredità, potrà esse commesso in nome della religione e della giustizia?
TRADIZIONE, FAMIGLIA E PROPRIETÀ
È di Emile Faguet, se non sbaglio, il seguente apologo: C’era una volta un giovane dilacerato da una situazione affettiva critica. Amava con tutta l’anima la sua graziosa sposa. E tributava affetto e rispetto profondi a sua madre. Ora, i rapporti tra la nuora e la suocera erano tesi e, a causa di gelosie, la giovane, seducente ma cattiva, aveva concepito un odio infondato contro l’anziana e veneranda matrona. A un certo punto, la giovane pose il marito con le spalle al muro: se non fosse andato a casa della madre, non l’avesse uccisa, e non le avesse portato il cuore della vittima, lei, la sposa, avrebbe abbandonato il tetto coniugale. Dopo mille esitazioni, il giovane cedette. Uccise colei che gli aveva dato la vita. Le strappò il cuore dal petto, lo avvolse in un panno, e si diresse di ritorno verso casa. Strada facendo, al giovane capitò di inciampare e cadere. Allora udì una voce che, partendo dal cuore materno, gli chiese, piena di sollecitudine e di tenerezza: «Ti sei fatto male, figlio mio?».
Con questo apologo, l’autore vuole sottolineare ciò che vi è di più sublime e di più toccante nell’amore materno: il suo totale disinteresse, la sua integrale gratuità, la sua illimitata capacità di perdonare. La madre ama il figlio quando è buono. Non lo ama però soltanto perché è buono. Lo ama anche quando è cattivo. Lo ama semplicemente perché è suo figlio, carne della sua carne e sangue del suo sangue. Lo ama generosamente, e anche senza essere assolutamente ricambiata. Lo ama nella culla, quando ancora non è capace di meritare l’amore che gli è dato. Lo ama durante tutta la sua esistenza, sia che salga ai fastigi della felicità e della gloria, sia che precipiti negli abissi della sfortuna e perfino del crimine. È suo figlio e questo dice tutto.
Questo amore, altamente conforme alla ragione, ha nei genitori anche qualcosa di istintivo. E, in quanto istintivo, è analogo all’amore che la Provvidenza ha posto negli animali verso i loro piccoli. Per misurare la sublimità di questo istinto, basti dire che il più tenero, il più puro, il più sovrano ed eccelso, il più sacro e sacrificale degli amori che siano esistiti sulla terra, l’amore del Figlio di Dio per gli uomini, fu da lui paragonato all’istinto animale. Poco prima di patire e morire, Gesù pianse su Gerusalemme dicendo: «Gerusalemme, Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere assieme i tuoi figli, come la gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e tu non hai voluto!».
Senza questo amore, non vi sono paternità o maternità degne di questo nome. Chi nega questo amore nella sua eccelsa gratuità, nega perciò la famiglia. Questo amore porta i genitori ad amare i loro figli più degli altri – in conformità con la legge di Dio -, e a desiderare per essi, con ansia, una migliore educazione, una maggiore istruzione, una vita più stabile, una autentica ascesa nella scala di tutti i valori, compresi quelli di carattere sociale. Per questo, i genitori lavorano, fanno economie e lottano. Il loro istinto, la loro ragione, i dettami della fede stessa ve li portano. Accumulare una eredità da trasmettere ai figli è un desiderio naturale dei genitori. Negare la legittimità di questo desiderio significa affermare che il genitore ha con suo figlio gli stessi rapporti che con un estraneo. Significa distruggere la famiglia.
Lo riaffermiamo ancora: sì, l’eredità è un istituto in cui la famiglia e la proprietà si baciano.
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E non soltanto la famiglia e la proprietà, ma anche la tradizione. Infatti, tra le molteplici forme di eredità, la più preziosa non è quella economica. L’ereditarietà – il fatto si può osservare correntemente – fissa spesso, in una stessa stirpe, sia nobile che plebea, tratti fisionomici e psicologici che costituiscono un anello tra le generazioni, ad attestare che, in qualche modo, gli antenati sopravvivono e si continuano nei loro discendenti. Compete alla famiglia, conscia delle sue peculiarità, distillare nel corso delle generazioni lo stile di educazione e di vita domestica, così come il comportamento privato e pubblico, in cui la ricchezza originaria delle sue caratteristiche raggiunga la sua più giusta e autentica espressione. Questa intenzione, realizzata nel corso di decenni e di secoli, è la tradizione. O una famiglia elabora la sua tradizione come una scuola di essere, di agire, di progredire e di servire, per il bene della patria e della Cristianità, o essa corre il rischio di generare, non raramente, disadattati senza una personalità ben definita e senza la possibilità di inserimento stabile e logico in nessun grumo sociale. Che vale ricevere dai genitori un ricco patrimonio, se da essi non si riceve – almeno allo stato di germe, quando si tratta di famiglie nuove – una tradizione, cioè un patrimonio morale e culturale?
Tradizione, ben inteso, che non è un passato stagnante, ma è la vita che il seme riceve dal frutto che lo contiene. Ossia, una capacità, a sua volta, di germinare, di produrre qualcosa di nuovo, che non sia il contrario dell’antico, ma il suo sviluppo armonico e il suo arricchimento. In questa prospettiva, la tradizione si amalgama armonicamente con la famiglia e con la proprietà, nella formazione della eredità e della continuità familiare.
Questo principio è contenuto nel buon senso universale. E perciò vediamo casi in cui è accolto anche nei paesi più democratici. Anche la gratitudine ha qualcosa di ereditario. Essa ci porta a fare, per i discendenti dei nostri benefattori, anche se sono già morti, ciò che essi ci chiederebbero di fare. A questa legge sono soggetti non solo gli individui, ma anche gli Stati.
Vi sarebbe una flagrante contraddizione se un paese conservasse in un museo, per gratitudine, una penna, gli occhiali, o perfino le pantofole di un grande benefattore della patria, ma relegasse nella indifferenza e nell’abbandono quanto ha lasciato di assolutamente più suo delle pantofole, cioè la sua discendenza.
Da questo deriva la considerazione che il buon senso tributa ai discendenti dei grandi uomini, anche se sono persone comuni. Da questo anche un fatto storico fra i più belli accaduti durante la più recente guerra civile spagnola. I comunisti avevano preso prigioniero il duca di Veraguas, ultimo discendente di Cristoforo Colombo, e si apprestavano a fucilarlo. Tutte le repubbliche dell’America si unirono per chiedere clemenza per lui. Intatti non potevano rimanere indifferenti di fronte alla possibilità che si estinguesse la discendenza dell’eroico scopritore.
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Queste sono le conseguenze logiche della esistenza della famiglia e dei suoi riflessi sulla tradizione e sulla proprietà.
Privilegi ingiusti e odiosi? No. Salvo il principio che l’ereditarietà non può coprire il delitto, né impedire l’ascesa di nuovi valori, si tratta semplicemente di giustizia. E della migliore …
LIBERTÀ, LAVORO O PROPRIETÀ?
Spesso mi si chiede perché la TFP non ha posto nella sua divisa «libertà» o «lavoro» invece di «proprietà».
Tratterò ora l’argomento.
Per Leone XIII la proprietà forma, con la libertà e il lavoro, un tutto armonico e indissociabile, al punto che nega simultaneamente questi tre valori anche chi nega soltanto uno di essi. E li afferma implicitamente tutti e tre, chi ne afferma uno.
Infatti, ogni essere vivente – dalla cellula più modesta al passero o a un leone – ha necessità ed è dotato di attitudini naturalmente destinate al soddisfacimento di queste necessità. Così, il passero e il leone hanno fame, e, perciò, l’istinto fa loro conoscere e desiderare l’alimento adeguato. E il loro corpo ha i mezzi necessari per impadronirsi di questo alimento e ingerirlo. Vi è, dunque, una correlazione naturale tra le necessità e le attitudini di ogni essere vivente.
Questo principio universale si applica anche agli uomini. E da questo derivano a ciascun uomo i tre diritti di essere libero, di lavorare e di diventare proprietario.
Infatti, per soddisfare le sue necessità, l’uomo ha una anima intelligente e dotata di volontà, per vedere e volere quello di cui abbisogna. Il suo corpo è, per esso, fonte di molteplici necessità, e anche strumento per fare quanto è necessario per rispondere a esse. Da questa situazione all’uomo deriva il fatto di avere contemporaneamente:
1. Il diritto alla libertà di agire secondo la sua retta ragione per raggiungere il suo fine;
2. Il diritto a esercitare un lavoro come mezzo per rispondere alle sue necessità;
3. Il diritto di proprietà.
Sì, il diritto di proprietà. Non pretendo di esporre in breve tutte le fonti legittime della proprietà. Vediamo semplicemente come essa nasce dalla libertà e dal lavoro.
Poiché l’uomo è padrone di sé stesso, è padrone delle sue capacità, e del lavoro mediante il quale esercita le sue capacità. E, poiché l’uomo è padrone del suo lavoro, è padrone del frutto del suo lavoro. Cioè, l’uomo è proprietario del suo salario. La proprietà nasce, dunque, dalla libertà e dal lavoro.
Vediamo ora come la proprietà dei salario genera la proprietà di ogni sorta di beni mobili e immobili. Poiché l’uomo è padrone del suo lavoro e del suo salario, può lavorare più o meno, ed economizzare più o meno. Lavorando ed economizzando molto potrà formare un peculio per non avere preoccupazioni circa il domani. O per comprare strumenti di lavoro con cui iniziare una attività. O per comprare un immobile da affittare a terzi. O per mettere insieme un peculio con cui associarsi a un affare. La proprietà – l’espressione, se non mi inganno, è di Leone XIII – è lavoro condensato e accumulato.
Così, dalla libertà e dal lavoro di ciascuno, nasce la proprietà.
A conclusione, rispondo soltanto ad alcune possibili obbiezioni.
1. Non è ingiusto che alcuni diventino proprietari, mentre altri, per malattia, sfortuna o pigrizia, non ottengono per sé un tale risultato?
Sarebbe come chiedersi se non è ingiusto che vi sia gente che gode buona salute, passeggia o viaggia, mentre altri, per malattia, sfortuna o pigrizia, non possono fare altrettanto. Coloro che si trovano in una situazione di inferiorità, vanno aiutati. Però non si ferma il corso normale delle cose a causa di situazioni anormali, colpevoli o no.
2. Ma la proprietà non si presta ad abusi?
Sì. Vanno impediti. Ma non per questo è il caso di perseguitarla e di mutilarla. Anche in materia di libertà e di lavoro sono possibili abusi. Tutti sono d’accordo nell’impedirli. Nessuno sarebbe d’accordo sull’ipotesi di mutilare o perseguitare la libertà o il lavoro per questa ragione.
3. Se la libertà, il lavoro e la proprietà sono così uniti, perché la TFP ha optato, nella sua divisa, per la parola «proprietà»?
La nostra denominazione è Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Família e Propriedade. Che cosa, oggi, manca maggiormente di difesa sul piano dottrinale? La libertà e il lavoro, che tutti glorificano una voce? No. Ma la proprietà, che i demagoghi e gli sciocchi – gli uni e gli altri in auge, nel nostro secolo – attaccano con tutte le forze.
Sì, difendiamo la proprietà, e in essa e con essa, implicitamente, il lavoro e la libertà.
PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA